La tirannia delle minoranze. Un freno per l’Unione europea, un vantaggio per i sovranisti

30 settembre 2020
Editoriale Europe
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I limiti della democrazia liberale

La democrazia liberale è un regime politico in cui la maggioranza governa nel rispetto dei diritti delle minoranze. La possibilità che la maggioranza possa diventare tirannica ha costituito una vera e propria ossessione dei teorici della democrazia. James Madison (1751-1836), il regista della Convenzione costituzionale di Filadelfia del 1787, e Alexis de Tocqueville (1805-1859), l’esploratore della democrazia americana, furono tra i primi a concettualizzare quella ossessione. In Europa, dopo che maggioranze politiche elette democraticamente avevano dato vita, tra le due guerre mondiali del secolo scorso, a regimi autoritari o totalitari, si è deciso di contenere il potere delle maggioranze attraverso l’indipendenza del potere giudiziario, l’autonomia del sistema dei media, la libertà delle opposizioni. Con l’allargamento del processo di integrazione, però, siamo scivolati nel pericolo opposto. Nell’Unione europea (Ue), infatti, si è venuto ad affermare, in cruciali politiche pubbliche, una logica decisionale che promuove la tirannia delle minoranze. Guardiamo i fatti.

il regolamento di Dublino

Il 23 settembre scorso, la Commissione europea ha reso pubblica la sua proposta per un nuovo Patto migratorio. La proposta era da tempo attesa. Nel suo discorso sullo “Stato dell’Unione” del 13 settembre, infatti, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aveva solennemente affermato che “la migrazione è una sfida europea e tutti debbono fare la loro parte”. L’attesa però non è stata premiata. Certamente, il Patto migratorio, se approvato, consentirebbe all’Ue di fare alcuni passi in avanti. Verrebbero promosse partnerships internazionali con i Paesi da cui provengono i flussi migratori, verrebbe rafforzata la struttura amministrativa di controllo dei confini esterni dell’area Schengen, verrebbe definita una procedura comune relativamente al riconoscimento del diritto all’asilo politico. Tuttavia, nel Patto, di abolire il regolamento di Dublino, non si parla neppure. Quel regolamento (l’ultima revisione è del 2013) prevede che sia il Paese di primo approdo a farsi carico di accogliere i migranti, valutando se abbiano o meno i requisiti per chiedere asilo politico. Così, nel caso si presentasse un’altra crisi migratoria come nel 2015, l’Italia e la Grecia, per gestirla, continuerebbero a basarsi sulle proprie forze. Infatti, rimane volontario il ricollocamento dei migranti negli altri Paesi (come stabilito dai governi nazionali già nell’estate del 2018). Con il Patto, la Commissione potrà chiedere, in circostanze eccezionali, che gli altri Paesi si facciano carico finanziariamente del rientro di una quota dei migranti che non hanno diritto a rimanere in Europa, ma nel frattempo questi ultimi rimarrebbero nel Paese di primo approdo, con ciò che ne segue.

Politica migratoria: un esito preoccupante

Come è possibile che l’Ue non riesca a raddrizzare una simile ingiustizia distributiva, che ha trasformato la collocazione geografica in una penalità? La risposta è semplice. Perché i governi nazionali hanno imposto il principio (non previsto dai Trattati) che le decisioni di politica migratoria vengano prese all’unanimità dei loro leader. I Paesi del gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia), oltre ad Austria e Slovenia, avevano fatto sapere (alla Commissione) che avrebbero opposto il loro veto a qualsiasi proposta che prevedesse la ricollocazione automatica dei migranti. Così fecero nel 2015, quando rifiutarono il ricollocamento automatico proposto dalla Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker e fatto proprio dal Consiglio a maggioranza qualificata, anche se quel rifiuto fu considerato illegittimo dalla Corte di giustizia europea. E la Commissione ha dovuto adeguarsi, non disponendo del potere decisionale in questa materia. Nello stesso tempo, però, i Paesi dell’Europa orientale, che chiudono le loro frontiere ai migranti che provengono dall’Africa o dal Medio-Oriente, vogliono che le frontiere interne europee rimangano aperte per i loro cittadini che migrano per lavoro nei Paesi dell’Europa occidentale. Così come vogliono che il programma dei fondi strutturali (cui l’Italia contribuisce significativamente) continui ad alimentare la loro crescita economica (e a consolidare il potere dei loro leader sovranisti). Dietro la posizione delle leadership dell’Europa orientale vi è una visione contrastante con i principi della società aperta (la Polonia, ad esempio, accoglie i cittadini dell’Ucraina perché “culturalmente omogenei”, come ha sostenuto il premier polacco Mateusz Morawiecki), ma anche con i principi dello stato di diritto che sono alla base dei Trattati dell’Ue. Quei Paesi, infatti, stanno smantellando l’indipendenza delle rispettive corti costituzionali, l’autonomia dei rispettivi sistemi informativi, la libertà delle rispettive opposizioni, configurandosi come regimi a tirannia della maggioranza. Dopo aver sentito la presidente der Leyen affermare, nel suo discorso del 13 settembre, che l’Ue “presenterà ogni anno un rapporto sul rispetto dello stato diritto nei suoi stati membri”, il premier Viktor Orban ha subito risposto (parlando al parlamento ungherese) che i Paesi di Visegrad sono pronti a porre il veto all’approvazione di un programma come “Next Generation EU” (che richiede l’unanimità), se il bilancio multi-annuale dell’Ue prevederà una qualche clausola di condizionalità sull’uso dei fondi strutturali. Poiché l’Ue ha affidato ad organismi intergovernativi (che funzionano su base volontaria e unanimistica) la decisione su politiche cruciali e su materie fondamentali, l’esito è che Paesi che praticano la tirannia della maggioranza all’interno, come il gruppo di Visegrad, possono anche esercitare la tirannia delle minoranze all’esterno. Un esito preoccupante.

La tirannia dell’unanimità

Insomma, se la democrazia nazionale è esposta al pericolo della tirannia delle maggioranze, la democrazia sovranazionale è soffocata dalla tirannia delle minoranze. Per allentare il cappio che la soffoca, l’Ue non può lasciare la decisione su politiche cruciali al solo Consiglio europeo dei capi di governo, né può consentire che essi deliberino all’unanimità. Attraverso la decisione all’unanimità, infatti, una minoranza di stati, guidati da leader sovranisti, sta indebolendo l’Ue dall’interno. Con il risultato che i leader sovranisti che impediscono all’Ue di decidere, sono quelli che poi traggono i maggiori benefici elettorali dalla sua difficoltà a decidere. Una vera e propria trappola. Come uscirne?

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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