La nomina del giudice Barrett alla Corte Suprema: una possibile crisi costituzionale?

1 ottobre 2020
Editoriale Open Society | Politica
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Una scelta radicale

La decisione del Presidente Trump di nominare senza indugio, al posto della scomparsa Ruth Bader Ginsburg, Amy Coney Barrett rischia di innescare un conflitto costituzionale molto duro, non tanto per le enormi differenze tra i due giudici (ebrea liberal e progressista, femminista e seguace delle teorie ermeneutiche non-interpretivist la prima; cattolica tradizionalista ed iperconsevatrice, antiabortista, e seguace delle teorie dell’original intent la seconda) quanto per la inopportunità di una nomina a poco più di un mese da elezioni che potrebbero sancire la sconfitta del Presidente in carica.

La controversa nomina presidenziale e i suoi precedenti

A rendere l’iniziativa di Trump discutibile c’è infatti il precedente del 2016. Come è noto, il 13 febbraio 2016 il giudice Scalia morì improvvisamente. Il 16 marzo 2016 il Presidente Obama nominò Merrick Garland come suo sostituto, incontrando però una fortissima opposizione non solo tra i senatori repubblicani, ma anche tra alcuni giuristi (tra cui la stessa Barrett), secondo i quali erano inopportune nomine da parte del Presidente nell’ultimo anno del suo mandato. L’opposizione a Garland si concretizzò in un vero e proprio ostruzionismo al Senato, e comportò che, con la scadenza della Legislatura, la scelta del nuovo giudice spettasse al neo Presidente Trump. È di tutta evidenza che se la nomina di un nuovo giudice era inopportuna a 8 mesi dalle elezioni presidenziali, lo è, a maggior ragione, a poco più di un mese.

Ulteriore precedente invocabile contro la scelta di Trump è la travagliata vicenda della nomina del successore di Earl Waren come Chief Justice. Warren, per impedire che Nixon potesse influire sulla nomina del suo successore, presentò le sue dimissioni nel giugno 1968 al Presidente Johnson, il quale nominò al suo posto Abe Fortas, fino ad allora Associate Justice. Tuttavia, anche in questo caso il tentativo naufragò per l’opposizione da parte del Senato, dove pure i Democratici erano maggioranza, con la motivazione che, trattandosi di anno di elezione presidenziale, la scelta sarebbe dovuta spettare al nuovo Presidente.

Pianificare una maggioranza

Il timore dietro una nomina così repentina è che il Presidente Trump, che ha già fatto intendere di non accettare una eventuale sconfitta elettorale, voglia precostituirsi una maggioranza a lui favorevole in Corte Suprema a cui fare appello in caso di sconfitta. Si potrebbe comunque replicare che la nomina di una maggioranza di giudici non garantisce affatto la prevalenza di un indirizzo giurisprudenziale omogeneo a quello del nominante. È il caso di ricordare che nella Corte che decise il caso Roe v. Wade (410 U.S. 113), vero e proprio fumo negli occhi per la opinione pubblica repubblicana, la stragrande maggioranza (6 contro 3) era di giudici di nomina repubblicana (ben 4 erano stati nominati dal Presidente Nixon), e lo stesso dicasi per la Corte che, una ventina di anni dopo, ne riaffermò il valore di precedente vincolante nel caso Planned Parenthood v. Casey (505 U.S. 833), dove addirittura i giudici di nomina repubblicana erano 8 contro un solo giudice di nomina democratica (Byron White, dissenziente, così come nel caso Roe). D’altra parte, è anche vero che ogni volta che la Corte Suprema si è occupata di political questions i contraccolpi sono stati sempre molto forti: basti pensare alle durissime reazioni dottrinarie a decisioni come Baker v. Carr (369 U.S. 186) -oggetto di strali da parte di Alexander Bickel, Raoul Berger e Robert Bork –, o Bush v. Gore (531 U.S. 98), quest’ultima duramente criticata da Ronald Dworkin, Sanford Levinson, Bruce Ackerman e Laurence Tribe.

L’ipotesi del Court-packing

In reazione alla forzatura istituzionale da parte del Presidente Trump, alcuni settori dei Democratici hanno avanzato l’ipotesi del Court-packing in caso di vittoria di Biden e di contestuale maggioranza nei due rami del Congresso. Come è noto, il numero dei giudici della Corte Suprema non è scritto in Costituzione, ma in una legge ordinaria approvata poco dopo la fine della guerra di Secessione, che ha definitivamente fissato in 9 il numero dei componenti la Corte Suprema. In teoria, quindi, una legge che aumentasse a 15 il numero dei giudici consentirebbe al neopresidente di precostituirsi una maggioranza. Ma una simile decisione sarebbe gravida, a sua volta, di pesantissime conseguenze, perché finirebbe per legittimare la pericolosissima idea che le istituzioni di garanzia siano terreno di conquista da parte delle maggioranze politiche. È bene ricordare infatti che il Court packing fu solo minacciato attraverso la presentazione di un bill da un F.D. Roosevelt esasperato dall’oltranzismo di una Corte Suprema che, tra il 1935 ed il 1936, aveva demolito la legislazione economica del primo New Deal, tanto che, una volta intervenuto l’overruling in materia economica nei casi West Coast Hotel Co. v. Parrish (300 U.S. 379) e NLRB v. Jones & Laughlin Steel Corp. (301 U.S. 1), il progetto di legge venne lasciato decadere.

In conclusione, quindi, la nomina della Barrett rischia di essere un vero e proprio detonatore su una situazione politico-sociale già di per sé esplosiva. Sarebbe stato auspicabile un atteggiamento più istituzionale da parte del Presidente, ma è anche vero che la Presidenza Trump si è caratterizzata sin dall’inizio in opposizione ai paradigmi “tradizionali”.

 

L'autore

Andrea Ridolfi è Dottore di Ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni Politiche comparate presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza (XV Ciclo) nonché titolare di docenza integrativa presso la Cattedra di Diritto Costituzionale della LUISS


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