Etica pubblica e diritto. Cosa accade quando una società smarrisce i valori condivisi

8 ottobre 2020
Editoriale Open Society | Politica
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L’essenza dell’etica pubblica

Qualche giorno fa, lo scorso 1 ottobre, abbiamo ricordato il primo anniversario dell’Osservatorio su Etica Pubblica, Ethos (Luiss Business School). È stata l’occasione per chiarire che cos’è l’etica pubblica e la sua rilevanza proprio in questo periodo. L’etica pubblica suggerisce che noi e gli altri non siamo in contrapposizione reciproca. Dopotutto, l’essere umano è un animale sociale, e in molte circostanze può essere razionale, oltre che ragionevole. Per esempio, prendiamo il caso delle mascherine: il loro impiego è ragionevole, tiene cioè conto degli interessi altrui, ma anche razionale ovvero tiene conto pure dei miei interessi. In molte circostanze, bisogna dare il giusto peso agli interessi di tutti.
In questo senso, l’etica pubblica ha a monte la religione e a valle il diritto. Che a monte ci sia la religione non è difficile da capire. Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te – il principio kantiano dell’etica pubblica – non differisce dalla massima evangelica “ama il prossimo tuo”. Da questo punto di vista, l’etica pubblica si limita a trasferire l’autorità ultima dall’esterno (Dio) all’interno (le nostre coscienze). Per rispettare l’altro – ci viene detto – non è indispensabile essere cristiano, si può essere anche musulmani, confuciani, buddisti, atei, o altro. L’importante è tenere saldo il principio di rispetto per gli altri. Questo spiega anche perché a valle ci sia il diritto. Il diritto fornisce una regola comune, dirime le controversie, e soprattutto ci obbliga a prendere sul serio il principio del rispetto quando la nostra volontà traballa.

Adesione spontanea alle norme 

Nessuna società, però, può sopravvivere solo di norme imposte. La coercizione è l’eccezione. L’adesione morale la regola. Nell’ottica della modernità occidentale, la conoscenza scientifica ha finito, però, con l’imporre una visione oggettiva della realtà in cui il sacro e l’eticità hanno poco o punto spazio. Ne segue una seconda scissione che contrappone mondo oggettivo e mondo spirituale. La fondazione ottocentesca delle scienze dello spirito in qualche modo sanziona questa scissione, sancendo l’incomunicabilità reciproca tra i due domini. Resta, da Kant in poi, aperto il problema della normatività del comportamento umano (perché mai fare quello che dovremmo fare?). Problema che si lega all’impossibilità – concettuale e pratica assieme – di concepire una realtà esterna e su di essa operare senza tenere conto di valori etico-politici. A questo problema fondazionale, è legata la questione del pluralismo. Perché, come sappiamo bene, trovare unanimità su valori etico-politici è quantomai difficile. I due più grandi pensatori contemporanei sul tema – Habermas e Rawls – si sono così spesi per distinguere il “buono” – ciò che corrisponde ai miei ideali morali – con il “giusto” – che rappresenta quel sotto-insieme di valori etici politicamente rilevanti su cui tutti dovrebbero essere d’accordo. Fin qui, più o meno, il dibattito in materia dalle nostre parti. In esso, ci sono, a mio parere, due limiti evidenti, che aprono la strada a un terzo e più importante. Da un lato, Habermas e Rawls sono pensatori istituzionalisti. Si preoccupano dei fondamenti della liberal-democrazia in una prospettiva di etica pubblica. Non della morale delle persone. Foucault ha scritto pagine importanti sulla “souci de soi”, che potrebbero aiutare da questo punto di vista. E aprire una strada che ci conduca in prossimità del mondo Orientale che ha sempre cercato di unire conoscenza e spiritualità.

Radici storiche di una morale scientifica

Analoga cosa potrebbe dirsi per la trascendenza. I nostri modelli etico-politici provengono dalla modernizzazione Occidentale che è fortemente impregnata di secolarizzazione. Ciò ha imposto una negazione del trascendente, con cui qui s’intende non solo la religione ma tutta l’autorità morale superiore alla scienza e alla coscienza. Anche qui in India e in Cina, e in generale in Oriente, si può dire che questo universo trascendente abbia conservato uno spazio vitale. I due punti sollevati – sul sé e sul trascendente – pongono così un terzo e più complicato problema, quello della necessità di un’etica pubblica universale. Mai come oggi, in tempi di pandemia, tale necessità, che riguarda tutte le grandi questioni contemporanee – la salute pubblica, la finanza, l’ambiente, le migrazioni, la guerra – è all’ordine del giorno.I campi di applicazione dell’etica pubblica riguardano le decisioni collettive rilevanti in settori come: equilibrio geo-politico globale, business ethics, intelligenza artificiale, bioetica, sostenibilità, medicina, frontiere della scienza e così via. E questi sono proprio i grandi temi di cui si occupa Ethos. Le ragioni per la creazione di Luiss ETHOS in questo periodo sono, poi, svariate. La prima ha a che fare con la sostenuta domanda di etica pubblica che nasce dalla società. Dopo l’inaugurazione di Ethos, lo scorso anno, siamo stati tempestati di richieste da imprese, ospedali, istituzioni pubbliche e, persino, dai servizi metereologici. C’è, in sostanza, nella società civile un gran bisogno di sapere perché si fa quello che si fa in specie quando si incontrano problemi complessi di identità e missione che hanno alla loro base dilemmi di natura etica. La seconda ragione è più squisitamente personale, anche se ha anche aspetti più generali. Sono più di quaranta anni che mi occupo di etica pubblica dal punto di vista teorico.

La dimensione pratica dell’etica pubblica

Ho un grande interesse – e sono sicuro di non essere l’unico a nutrirlo – per la possibilità di applicazioni pratiche. La pratica è sempre più difficile della teoria perché le variabili non sono sotto controllo, perché la realtà è in evoluzione continua, e così via. Ma bisogna riconoscere che – come voleva Aristotele – l’etica è pratica. La terza ragione consiste nel fatto che Ethos sia all’interno della Luiss Business School. E questo ci sembrava il luogo più adatto per fare penetrare le humanities nel mondo solo apparentemente distante delle imprese, della tecnologia, delle istituzioni. La quarta ragione, poi, è forse la più importante e delicata. Ai nostri giorni – e ce ne rendiamo tutti conto – la politica affanna. Non ce la fa a seguire i ritmi e la complessità della società civile. C’è una tendenza a condannare la politica per questa incapacità. La dialettica più o meno populistica di “noi” (gente comune) buoni e “loro” (i politici) cattivi la conosciamo bene. Questo tipo di risposta indica un sintomo ma certamente non una soluzione. Un tentativo di rispondere in maniera più convincente consiste invece nel fare sì che la società civile diventi in parte istituzione. Ethos vuole dare un contributo a questo tipo di processo collettivo.

 

 

L'autore

Sebastiano Maffettone è Direttore di Ethos Luiss Business School


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