Il Patto europeo sull’immigrazione? Tante buone intenzioni ma nessun concreto passo in avanti
12 ottobre 2020
Un nuovo patto sulla migrazione
Il nuovo patto sulla migrazione e l’asilo proposto dalla Commissione europea alla fine di settembre è formulato con un linguaggio denso di riferimenti a valori etico-politici. Di per sé questo non è nuovo – l’UE nasce intorno a valori –, né è un difetto. E l’obiettivo principale del patto – instaurare un quadro comune per bilanciare oneri e benefici degli Stati-membri, realizzando un principio di solidarietà – è ovviamente condivisibile, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista morale. D’altra parte, il patto mira a regolamentare tanto la migrazione economica, quanto l’asilo concesso ai rifugiati, il soccorso in mare e l’integrazione (p. 2). E il diritto internazionale che regola queste materie ha basi morali riconosciute: il diritto di non-refoulment deriva dal dovere della comunità internazionale di tutelare chi fugga da Stati che violano i diritti umani e il soccorso in mare risponde a una logica elementare di non maleficenza (astenersi dal soccorrere chi è in pericolo non per sua colpa, specialmente quando il soccorso costa ai soccorritori meno di quanto il mancato soccorso costerebbe alle vittime, equivale a concorrere al danno).
Il dilemma etico
Ma una delle politiche proposte dalla Commissione è molto problematica dal punto di vista etico. Il principio basilare del documento è «che nessuno Stato membro dovrebbe accollarsi una responsabilità sproporzionata e che tutti gli Stati membri dovrebbero contribuire alla solidarietà su base costante» –una responsabilità sproporzionata per i costi della migrazione e dell’asilo e una solidarietà fra gli Stati membri. Per realizzare questi principi, il patto propone molte soluzioni specifiche, ma il punto essenziale riguarda la condivisione della responsabilità, cioè dei costi derivanti da quelli che vengono definiti «arrivi misti di persone bisognose di protezione internazionale e di persone che non hanno bisogno di tale protezione» (p. 6). Per ottenere questo scopo si propone un meccanismo di “sponsorizzazione dei rimpatri”, che funzionerebbe così:
gli Stati membri fornirebbero allo Stato membro sotto pressione tutto il sostegno necessario per rimpatriare rapidamente coloro che non hanno il diritto di soggiornarvi, mentre lo Stato membro “sponsor” si assumerebbe la piena responsabilità se il rimpatrio non fosse effettuato entro un periodo stabilito. Gli Stati membri possono incentrare la loro azione nei confronti dei cittadini di quei paesi terzi verso i quali ritengono di avere più probabilità di effettuare efficaci rimpatri. Sebbene ciascuno Stato membro debba contribuire alla ricollocazione e/o alla sponsorizzazione dei rimpatri e si applichi una chiave di distribuzione, gli Stati membri avranno la flessibilità di decidere se e in quale misura ripartire il proprio impegno tra i due tipi di misure (p. 6, corsivi aggiunti)
Il caso del rimpatrio
In altre parti del documento si riconosce che certe categorie vulnerabili debbono restare fuori da questo meccanismo e avere diritto a ricollocazioni o reinsediamenti, anche se ciò non comporta ancora per loro libertà di circolazione all’interno dell’Unione – anzi, bisogna incentivare i rifugiati a rimanere dove hanno ottenuto la protezione internazionale, magari concedendo loro, dopo tre anni di permanenza continuativa, lo status di «soggiornanti di lungo periodo»: una sorta di cittadinanza attenuata, senza diritti di libera circolazione, appunto. Allo stesso modo, si riconosce che i rimpatri dipendono da accordi con i paesi terzi e che bisognerebbe preferire «rimpatri volontari assistiti» che si accompagnino a «forti misure di reinserimento» nel paese d’origine (pp. 9-10) – il che fa trasparire la consapevolezza che non ci sono basi giuridiche e morali per rimpatri forzosi.
Il significato di “ricollocazione”
Tutti questi aspetti sono problematici. Ma torniamo sul meccanismo di solidarietà basato sulla sponsorizzazione dei rimpatri e sulla flessibilità che consente. La cosa dovrebbe funzionare così: lo Stato membro A è sotto pressione, perché ha più arrivi di quelli che può gestire, o ritiene di poter gestire (cioè di quelli che può, o ritiene di potere, ricollocare, se rifugiati, o rimpatriare, se migranti). Agli altri Stati membri si chiede di pagare i costi o per la ricollocazione o per il rimpatrio, a scelta. Ora, si può ipotizzare che siano veri i seguenti fatti: la ricollocazione costerà sempre di più dei rimpatri (specie se si includono i costi sociali e politici, cioè l’eco che accettare profughi può avere nel clima politico dei paesi europei), e questo è vero anche se i profughi da ricollocare fossero in numero molto minore rispetto ai migranti da rimpatriare; inoltre, il rimpatrio porta sempre guadagni di immagine, in aggiunta ai risparmi rispetto alla ricollocazione menzionati prima. Ora, se le cose stanno così, ci si può chiedere: quanti Stati membri decideranno di contribuire alla ricollocazione? Molto pochi, e in misura molto ridotta. Di conseguenza, la solidarietà fra gli Stati prevista da questa misura è molto sbilanciata – è solidarietà nella gestione dei migranti, non dei rifugiati. Inoltre, ci sono incentivi e implicazioni moralmente perverse nella proposta: l’incentivo a rifiutare molte domande dubbie, tramutando possibili rifugiati in migranti da rimpatriare, dato che rimpatriare conviene di più; l’idea che la responsabilità di soccorrere e accogliere i rifugiati si possa barattare con la più lieve responsabilità di rimandare a casa i migranti – con la foglia di fico di provare a convincerli, con la promessa di aiuti nel proprio paese d’origine. Una proposta del genere, più che un ritorno alla solidarietà e all’equità, sembra uno stratagemma per consentire a molti Stati europei di scappare dalle proprie responsabilità, quando esse siano troppo onerose. Questo non è un passo avanti rispetto al sistema di Dublino, né politicamente, né moralmente.
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