La riforma del sistema europeo di asilo: un passo avanti?
12 ottobre 2020
Un nuovo meccanismo di solidarietà
Che la riforma del CEAS, il Sistema comune europeo di asilo, fosse fra le priorità della neonata Commissione lo si era capito fin dalle prime uscite della Presidente von der Leyen. Un terreno scricchiolante ed infido, sul quale era, però, inevitabile attendersi qualche mossa, dopo che gli sforzi prodotti dalla Commissione Juncker si erano arenati di fronte al fiero cipiglio di alcuni Stati membri, sollevatisi in difesa delle proprie rispettive sovranità. Il nuovo “pacchetto” è contenuto in una comunicazione del 23 settembre scorso dal titolo Un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo. Un patto che va oltre il CEAS, immaginando interventi sistemici in aree ad esso comunque contigue: la risposta alle crisi migratorie; la gestione integrata delle frontiere; il rafforzamento della lotta al traffico dei migranti; la collaborazione con i partners internazionali.
La strategia della Commissione consiste, prevalentemente, in due proposte legislative: un regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione comprendente un nuovo meccanismo di solidarietà; e un regolamento che istituisce una procedura di screening alle frontiere esterne. A ciò la Commissione aggiunge alcune delle proposte già presentate dalla Commissione Juncker, arricchendole di alcuni emendamenti (è il caso di quelle relative ai regolamenti “procedure” ed Eurodac) o insistendo integralmente sui vecchi testi (per il regolamento “qualifiche” e la direttiva “accoglienza”), sui quali i triloghi fra Commissione, Parlamento e Consiglio avevano dato esiti pressoché risolutivi.
Il problema politico
Il cuore del problema politico è storia nota: l’inadeguatezza del sistema di Dublino. Il suo scopo principale è individuare lo Stato membro responsabile per l’esame di una domanda di asilo. Il regolamento Dublino III, che oggi regge questo sistema, è da anni molto contestato perché farebbe gravare il peso dei flussi solo sugli Stati membri di primo ingresso illegale (dunque, soprattutto, su Grecia, Italia e Spagna). Peccato che questi stessi Stati abbiano aggirato abilmente il sistema, finendo per spostare il peso dei flussi sugli Stati di ultima destinazione, quali Belgio, Francia, Germania, Paesi Bassi e Svezia. Il risultato finale è una partita politica nella quale l’unico modo per superare le (inique ma costantemente violate) regole del sistema di Dublino è rivederne la logica, ponendo al centro della medesima un meccanismo permanente di solidarietà e (se possibile?) i diritti dei richiedenti, fra i quali spicca, almeno in questo contesto, quello di scegliere il luogo (cioè lo Stato membro) nel quale cercare riparo. Un obiettivo piuttosto arduo da raggiungere nel clima di reciproca sfiducia che regna fra gli Stati membri, e non solo nel ristretto ambito del CEAS.
Trovare una soluzione permanente
La Commissione affronta il problema con grande decisione: il regolamento “gestione” è inteso a smantellare quasi tutti i capisaldi del regolamento Dublino III. A partire dal nome, che in effetti necessitava di un’opera di cosmesi, essendo da anni associato ad un sistema fallimentare. Più rilevanti, però, sono gli aspetti sostanziali. Viene, sì, mantenuto il tanto discusso criterio del primo ingresso illegale (v. art. 21), ma solo in subordine all’attivazione del meccanismo di ricollocamento, parte di un più complesso sistema di solidarietà. Esso è previsto dall’art. 45 che prevede vari livelli di intervento: dal ricollocamento, appunto, che è il trasferimento del richiedente ad un altro Stato membro, fino al supporto operativo. Due i casi in cui gli Stati membri saranno obbligati ad intervenire in aiuto di un altro di loro, in difficoltà: una pressione migratoria non sostenibile e/o lo sbarco di migranti a seguito di operazioni di ricerca e soccorso in mare. Emergenze che andranno entrambe certificate dalla Commissione europea.
Come intende la proposta mettere d’accordo gli Stati membri nel legarsi a obblighi siffatti, considerando che persino soluzioni episodiche, come quelle adottate dal Consiglio in autunno 2015, hanno creato un tale dissenso da indurne due a chiamare in causa persino la Corte di giustizia? La Commissione propone di strutturare una cooperazione ad hoc nella quale gli Stati membri trovino, con il suo aiuto, una soluzione che copra l’emergenza contingente (i due casi citati sopra): un Solidarity Forum. Ma pure suggerisce di consegnarle, una volta che la soluzione sia stata trovata, poteri di attuazione: per ovviare ad un problema che si era manifestato proprio in occasione delle due decisioni del 2015, cui gli Stati membri avevano dato scarso seguito operativo.
Il meccanismo dei bottom four
Difficile ipotizzare quanto successo possa avere una proposta del genere. Di certo essa toglie di mezzo un elemento molto innovativo, sostenuto soprattutto dal Parlamento europeo ma scarsamente apprezzato dagli Stati membri: quello di introdurre nel sistema un minimo spazio di scelta per il richiedente. Il meccanismo dei c.d. bottom four lasciava al richiedente da ricollocare la scelta di uno fra i quattro Stati membri con la più bassa pressione di richieste di asilo. La nuova proposta della Commissione impone allo Stato membro in difficoltà solo di identificare lo Stato membro di ricollocamento tenendo conto dei possibili “meaningful links” fra questo e il richiedente; solo in caso di ricollocamento di un individuo che già beneficia di protezione nello Stato membro che si giova del meccanismo è necessario il consenso dello stesso beneficiario – consenso che, evidentemente, non include la possibilità di scegliere in quale Stato membro essere ricollocato.
La chiave del meccanismo di solidarietà poggia, dunque, sulla capacità persuasiva della Commissione, che essa intende in qualche modo “imbrigliare” nei diversi steps procedurali che ruotano attorno al Solidarity Forum. Un passo in avanti? Sì, con qualche ombra, se è vero che, ultimamente, la Commissione non sempre è riuscita a riportare gli Stati più indisciplinati (vedi il caso polacco) a più miti consigli.
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