Verso la società della cura. Cambiare paradigma per superare la crisi
16 ottobre 2020
La crisi
Da diversi anni – prima ancora dell’esplosione devastante della pandemia – molti sociologi hanno fatto riferimento alla “crisi” come dimensione strutturale della modernità: una sorta di paradigma sociale. Una crisi specifica, quella derivante dalla pandemia, ci ha costretto a ripensare modi di vita, funzionamento delle istituzioni e organizzazione della politica. Proprio su queste pagine, molto opportunamente, Leonardo Morlino aveva parlato della responsabilità delle élites politiche nella problematicità dei processi decisionali. La recente indagine Ipsos sui corpi intermedi evidenzia la delusione dei cittadini per la lentezza delle decisioni nelle istituzioni; gli stessi cittadini che si fidano del terzo settore ma mostrano scarsa stima verso le fondazioni bancarie.
Le parole di Papa Francesco
L’incertezza politica e la paura per la tenuta delle democrazie appaiono forti; non è un caso che Papa Francesco – nell’enciclica Fratelli tutti – avverta che “la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro”. Lo sviluppo dei populismi autoritari e il ruolo degli ecosistemi comunicativi come strumenti di manipolazione evidenziano drammaticamente quanto il richiamo di Papa Francesco non sia da sottovalutare. Anche le statistiche di questi mesi, inoltre, mettono in risalto le lentezze – quando non, appunto, un “ritorno indietro” – sulle variabili riguardanti l’eguaglianza sociale ed economica. Un esempio sui tanti possibili: la narrazione sociale che ha esaltato il ruolo delle donne come baluardo della “cura” durante la pandemia, non si è accorta che il nostro paese si trova al 76° posto (su 153) per le politiche di genere e solo al 125° per il Gender Pay Gap. La pandemia ha evidenziato tutte le lacune di un sistema globale basato sul pensiero unico del mercato, in cui le diseguaglianze sociali tendono a crescere in maniera esponenziale, rendendo di fatto sistemico il paradigma della crisi.
Ripensare l’economia
In questo contesto, se il richiamo a “più mercato” appare chiaramente miope e antistorico, nondimeno resistono posizioni che fanno riferimento ad “aggiustamenti” del sistema economico senza considerarlo in un più generale ecosistema sociale globale. Piccoli aggiustamenti, del tutto insufficienti rispetto alla necessità di cambiare paradigma; bisognerebbe, infatti, fare lo sforzo di passare dalla passiva accettazione della crisi a una risposta capace di riscoprirne il valore di transizione; nonché a ritrovare il significato di parole come solidarietà, umanesimo o cura. Non è un caso che proprio sulla necessità di un impegno per una “società della cura”, centinaia di associazioni e movimenti si stiano confrontando in questi giorni. Rimettere la “cura” al centro della riflessione – anche di quella di chi fa ricerca – significa prospettare uno sviluppo diverso e provare a immaginare soluzioni che vadano oltre l’emergenza. Significa, per esempio, lavorare per una conversione ecologica della società, che fra l’altro potrebbe favorire anche lo sviluppo di un nuovo approccio alla questione energetica. Significa riconnettere il lavoro con il reddito e il welfare (come da anni fa il pensiero eco-femminista): un ambito (anche di ricerca) che non può che fondarsi sulla centralità del welfare universale e sul diritto alla conoscenza (conoscenza, ricerca e istruzione – non dovremmo mai dimenticarlo – costituiscono variabili fondamentali per la riduzione delle diseguaglianze).
Il paradigma della cura
Adottare il paradigma della cura, significa anche riscoprire la centralità dei beni comuni e, con essi, il grande dibattito sulla democrazia di prossimità. Oggi, infatti, le forme dell’innovazione democratica non possono più limitarsi a vecchie modalità di governance più o meno collaborativa (spesso più raccontata che reale) ma dovrebbero puntare a forme partecipative e deliberative concrete, capaci di ridare voce ai soggetti e legittimità democratica alle decisioni. La democrazia di prossimità, in fondo, è anche una sfida verso forme di “ripoliticizzazione” inclusive e orizzontali, capaci di ridare fiducia a soggetti a cui la sbornia neoliberista ha rubato speranze prima ancora che risorse economiche.
In questo quadro, temi che sembravano confinati nei dibattiti del volontariato e delle Chiese (come la pace e il valore dell’accoglienza) diventano oggetti politici e nuovi temi di ricerca ed è persino possibile parlare di una finanza al servizio della vita, dei diritti, funzionale a uno sviluppo che pratichi il mutualismo e favorisca l’eguaglianza. La scienza – siamo fiduciosi – sconfiggerà il virus; ma per allontanarne gli effetti sociali è necessario cambiare paradigma. Adottare quello della società della cura come cornice interpretativa (delle scelte economiche e della ricerca sociale) significa ridare forza alla speranza e nuova dignità alla politica.
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