Se non nasce una destra moderata è anche colpa della sinistra

19 ottobre 2020
Editoriale Politica
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La scomparsa del centrodesta

Si parla molto oggi, di fronte alla crisi del populismo, reale o auspicata che sia, della necessità di ricostruire una destra moderata. Ma l’operazione non è affatto facile. Non perché sia particolarmente complicato identificare le linee portanti di una cultura politica di centro destra. E neppure perché manchi uno spazio politico nel quale lavorare: lo spazio c’è, anche se al momento non è amplissimo. Perché, allora?
In primo luogo perché Gramsci ha vinto. Ossia perché tutti i luoghi di produzione e riproduzione di cultura – le “casematte” nelle quali una società avanzata concepisce e rappresenta se stessa, là dove si generano quei princìpi di legittimazione del potere che Guglielmo Ferrero chiamava i “genî della città” – sono egemonizzati da un pensiero non di destra. Sebbene non necessariamente di sinistra, come vedremo fra breve. Stiamo parlando dei media cosiddetti mainstream, delle università e delle scuole, delle case editrici, della magistratura e della burocrazia. In secondo luogo, e al contrario, perché Gramsci ha perso. Nel suo pensiero la conquista delle casematte doveva servire a ricostruire un legame organico fra élite e popolo: un legame robusto come lo era stato nei momenti migliori della storia della Chiesa cattolica, anche se radicalmente secolarizzato nei suoi princìpi di fondo. Ma oggi il legame fra élite e popolo è tutto tranne che robusto. Al contrario, si può forse sostenere che di rado nella storia sia stato tanto labile. Le casematte della nostra epoca e il pensiero non-di-destra che le occupa l’egemonia la esercitano prevalentemente su se stesse e sui propri clienti. Poiché sono casematte ricche, la loro clientela è vasta. Ma una parte molto ampia del popolo, una componente a tratti maggioritaria, le ignora nel migliore dei casi, le disprezza e detesta nel peggiore.

La democrazia è dialettica

La doppia dinamica creata dalla vittoria e dalla sconfitta di Gramsci stritola la destra moderata. Nelle casematte è in netta minoranza. Non solo: lì dentro è tollerata perché la maggioranza vuol darsi una vernice di pluralismo, ma soltanto a condizione che si rassegni alla propria marginalità. Al di fuori delle casematte imperversa invece un’altra destra, necessariamente immoderata sul terreno della realtà e ancor di più su quello della rappresentazione. Sul terreno della realtà perché è priva di una guida intellettuale che la vertebri e nobiliti, ed è quindi destinata a manifestarsi in forme grezze e istintive. E sul terreno della rappresentazione perché quello lo controllano le casematte. E una destra estranea alle casematte non potrà quindi che esser rappresentata a priori come estremista, populista e fascista, ben al di là dei suoi demeriti.
Vabbè, dirà a questo punto il lettore, soprattutto se di sentimenti progressisti: fosse pure la destra moderata impossibile, poco male, o addirittura meglio così. Sarebbe un commento poco saggio, però. Perché quell’impossibilità dice parecchio anche sullo stato della nostra democrazia, e perfino su quello della sinistra. E quel che dice non è granché confortante.

Il ruolo portante dell’élite

Un regime liberal democratico, innanzitutto, ha bisogno di una dialettica politica ordinata e costruttiva. E quella che ho appena descritto non lo è affatto. La divisione verticale fra destra e sinistra si è girata di novanta gradi in senso orario e si è sovrapposta a quella orizzontale fra élite e popolo: un’élite prevalentemente progressista (o almeno: che si autodefinisce tale) da un lato, con poco popolo; e un imponente pezzo di popolo istintivamente di destra dall’altro, non guidato né educato da alcuna élite. Se una democrazia liberale ben funzionante prevede che élite alternative competano per il consenso popolare, come ci ha insegnato Schumpeter, allora la nostra democrazia odierna di funzionante ha ben poco.

Il sacrificio della libertà

Non solo: in condizioni come queste anche la libertà è destinata a soffrire. Nelle casematte, come abbiamo visto, di libertà non ce n’è molta: il pensiero che le ha occupate è in teoria quanto di più tollerante e pluralista sia mai esistito, in pratica però impone una disciplina surrettizia ma rigorosa e incentiva con forza il conformismo. Da ultimo, per altro, disciplina e conformismo si sono venuti facendo più pesanti, con ogni probabilità anche per effetto di una sorta di sindrome da cittadella assediata: la sensazione che l’ambiente intorno alle casematte sia diventato più ostile e che la guarnigione debba quindi stringersi a difesa. Ma anche la plebaglia di destra con la libertà ha ben poco a che fare: figurarsi se ha tempo e pazienza per bagatelle da azzeccagarbugli quali la divisione dei poteri, la presunzione di innocenza, le garanzie processuali o la tutela della privacy.
Se la cultura che ha egemonizzato le casematte non è certamente di destra, in terzo luogo, non è affatto detto che sia davvero di sinistra. È considerata di sinistra soprattutto perché nella loro stragrande maggioranza gli esponenti della guarnigione dicono di stare da quella parte. C’è da chiedersi però che cosa abbia davvero a che fare con la tradizione progressista ottocentesca e novecentesca una cultura che non sa più non dico parlare ai ceti popolari, ma neppure capire i loro bisogni e le loro emozioni. Che ha rinunciato alla costruzione di identità e all’identificazione di interessi collettivi e ha puntato tutto sull’espansione della soggettività individuale, accettando che la possibilità stessa del fare politica sia messa in discussione. E soprattutto, che ha di fatto rinunciato a sporcarsi le mani con l’economia – la produzione, il lavoro, la distribuzione del reddito –, abbandonando la realtà materiale per dedicare ogni sua attenzione alle rappresentazioni.

No mask 

Sarà molto interessante osservare che effetto avrà su tutto questo la pandemia. Per il momento ha senz’altro rafforzato le casematte, e ha anche ristretto – o per lo meno reso temporaneamente meno rilevante – lo iato che le separa dal popolo. Nelle casematte, del resto, sono concentrate la cultura, le competenze tecniche e la capacità di direzione: qualità delle quali si avverte molto più acutamente il bisogno nelle fasi di pericolo che in quelle ordinarie. Allo stesso tempo però la pandemia ha pure sollecitato dei moti di ribellione contro le casematte. In Italia questi moti – la manifestazione organizzata dal generale Pappalardo, i “no mask” – hanno goduto di una certa attenzione mediatica, ma in realtà sono stati molto marginali, ai limiti dell’irrilevanza. Il loro effetto principale, almeno finora, sembra esser stato quello di legittimare le propensioni scarsamente liberali presenti nelle casematte: propensioni a circoscrivere l’ambito del dissenso e a delegittimare quanti si muovano al di fuori del politicamente consentito.

Uno iato strutturale

Ma la vera, proverbiale domanda da un milione di dollari verte, com’è evidente, su quel che accadrà una volta finita l’emergenza sanitaria. L’aumentata capacità di governo della società che le casematte hanno acquisito grazie alla pandemia si rivelerà duratura, o al contrario è destinata a generare per reazione un’ostilità ancora più profonda e diffusa, rabbiosa e anarcoide? La pandemia metterà a disposizione delle casematte un’immensa quantità di risorse (prese in prestito dal futuro, ma qui questo importa poco), con cui esse potranno ampliare e consolidare le proprie clientele e il proprio consenso. Questo lascia pensare che il cambiamento impresso dal Covid possa durare almeno per qualche tempo. Ma lo iato fra élite e popolo è strutturale e viene da lontano – ha comincia a prender forma circa mezzo secolo fa. E questo lascia credere che la pandemia non sia in grado di richiuderlo in via definitiva, ma al più di sospenderne temporaneamente gli effetti. Fino magari alla prossima ondata migratoria o recessione economica, e alla nuova insurrezione populista che la seguirà.
Soltanto lo sviluppo di una destra moderata nella casematte e al di fuori di esse sarebbe in grado di restringere strutturalmente lo iato fra le élite e una parte importante del popolo. Ma sviluppare una destra moderata, in queste condizioni, è difficile. E siamo così tornati al nostro punto di partenza.

L'autore

Giovanni Orsina è il Direttore della Luiss School of Government


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