L’evoluzione di Donald Trump: da identity politics a trickster politics

30 ottobre 2020
Editoriale Open Society | Politica
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Voto indiretto

L’election day si approssima e l’esito dello scontro tra Donald Trump e Joseph Biden rimane incerto anche se i sondaggi più recenti sono a favore del candidato democratico. Il dibattito finale tra presidente e sfidante (Belmont University, Nashville) non ha invertito la tendenza, sebbene il solitamente indisciplinato presidente abbia dato ascolto ai consiglieri e si sia presentato distaccato, moderato e persino presidenziale—less like himself, ha scritto il New York Times. Il ricordo delle elezioni 2016, con il fallimento delle previsioni, impone però prudenza a osservatori e analisti. Più del 40 per cento degli elettori, inoltre, continua a sostenere Trump, una percentuale che in un sistema di voto indiretto non significa necessariamente sconfitta. Con la consueta finezza intellettuale, Sergio Fabbrini ha spiegato come la fedeltà di larghi strati popolari a Trump sia dovuta a ragioni di natura identitaria la cui origine risale alla formazione degli Stati Uniti. Oggi come allora, nel contesto di una democrazia più che mai fragile e polarizzata, si ripropone il bivio identitario: democrazia e pluralismo o melting pot e mono-culturalismo? L’analisi è pienamente condivisibile e ha ispirato il seguente tentativo di riflessione che si serve degli strumenti analitici dell’antropologia politica.

Identity politics

Larghi settori dell’elettorato americano erano del tutto privi di rappresentanza prima dell’arrivo di Trump. Del resto la sinistra era diventato il partito delle élites acculturate e la destra continuava a essere il partito delle élites economiche e conservatrici. A chi non si riconosceva in nessuna delle costellazioni elitarie restava poco o nulla, almeno fino all’emergere di movimenti e leader definiti—con un termine abusato e così opaco da essere privo di efficacia analitica—populisti.
La sinistra americana (come quella europea) aveva inoltre abbandonato, a partire almeno dagli anni Settanta del Novecento, il basket of deplorables —cioè, nella infelice e suicida accezione di Hillary Clinton, i ceti bianchi, rurali, operai, non più giovani, senza titoli di studio e abitanti di stati interni impoveriti. La sinistra aveva insomma trascurato i temi della diseguaglianza e delle redistribuzione del reddito e le battaglie per un sistema fiscale progressivo, il welfare, i diritti dei lavoratori per abbracciare quasi esclusivamente l’identity politics. Col termine, traducibile con ‘politica identitaria’, si indica la politica che promuove gli interessi specifici di persone e gruppi contraddistinti  da una specifica dentità razziale, etnica e culturale. I movimenti per i diritti civili, femminista, e di liberazione omosessuale sono i maggiori esempi di identity politics. Al basket of deplorables privo di rappresentanza politica, Trump ha semplicemente offerto la possibilità di mettere in scena la propria identity politics di bianchi, conservatori (nella morale), privi di titoli di studio. La politica del resto è mise en scene (messa in scena), avrebbe detto il filosofo Claude Lefort. Il white, prima considerato e vissuto come un difetto o come assenza di razza è diventata una identità politica positiva (affirmative) in cui molti americani si riconoscono.

Il ruolo del carisma

Come l’outsider, o percepito come tale, Trump si sia inserito in questo ‘luogo vuoto’ della politica, direbbe ancora Lefort, lo spiega l’antropologia politica. Poco prima le elezioni del 2016 la storica americana Ruth Ben Ghiat paragonò Trump a Mussolini, definendo entrambi autorità o personalità carismatiche. Lo hanno fatto molti altri, studiosi e opinionisti, negli anni successivi. Trump è una personalità carismatica? È questo il segreto del trumpismo?
In realtà, la nozione di carisma applicata a Trump o anche a Mussolini—come nel più importante storico italiano del fascismo Emilio Gentile — o a Hitler e Stalin è priva di senso e oscura invece di chiarire. È il frutto di una lettura discutibile di chi introdusse l’antico concetto di carisma nella politica moderna: Max Weber. Il carisma, sostiene Weber, fa del politico un essere speciale, soprannaturale. Il leader carismatico è forte, onesto, dotato di grazia. È un brillante oratore. Sa bilanciare passione e concretezza, evitando la sterile eccitazione del pubblico e incanalando l’effervescenza collettiva verso problemi concreti e reali. Ha senso della misura e responsabilità e quindi dice sempre la verità, pure se spiacevole. Rifugge dalla vanita—che conduce a mancanza di obiettività e irresponsabilità — e dal potere in sé e per sé. Il leader carismatico per eccellenza, secondo Weber, è Pericle.

Un trickster Jungiano

Più che a Pericle, Trump somiglia invece al trickster. Come spiegò decenni fa Paul Radin, il trickster—in traduzione imperfetta: l’ingannatore, l’imbroglione, il briccone divino—appare nei miti di innumerevoli culture. È figura dell’eccesso, un burlone, ma anche un ladro, un bugiardo e un impostore. In molte leggende il trickster è un vagabondo, un outsider senza legami esistenziali che si imbatte in un villaggio in cui è appena scoppiata una crisi. Conquista la fiducia e l’approvazione dei locali raccontando storielle (jokes) e dicendo sempre ciò che gli altri vogliono sentirsi dire. Non è saggio ma astuto. Si impone non per le sue qualità — non ne ha — ma perché confonde verità e menzogna. Si presenta come la soluzione alla crisi ma in realtà vuole prolungarla perché è il suo vero habitat. E quindi opera incessantemente per perpetuare insicurezza, confusione e incertezza — la crisi stessa.

Trionfo nel caos

Il trickster è un archetipo junghiano che la sociologa Agnes Horvath ha introdotto nello studio dei fenomeni politici. Le personalità storiche raramente assomigliano agli archetipi universali. Ma l’analisi attenta dei fatti e delle prove a disposizione, mostra come Trump sia sorprendentemente simile al trickster, come avevo scritto con Bjørn Thomassen prima delle elezioni 2016, prevedendone il trionfo. Trump non è un grande oratore. Adopera un registro linguistico colloquiale, disadorno, farcito di errori sintattici. Ripete sempre le stesse parole: ‘io’, oppure ‘Trump’ (vanità, direbbe Weber), le altre composte in genere di due sillabe: Cina, denaro (money), virus. Nelle manifestazioni pubbliche fomenta l’eccitazione e la indirizza su un problema irreale in un mix tossico di divertimento e rabbia. Le sue dichiarazioni sono spesso false. Cambia idea da un giorno all’altro e finge che il cambiamento non sia avvenuto. La sua risata diviene in un attimo un attacco violento all’interlocutore. Si presenta come l’outsider che salva dalla crisi e unisce la società ma con le sue dichiarazione divide, confonde, prolunga l’incertezza.

Hitler, “solo” un clown

Non è un gran sollievo vedere in Trump un trickster e non un leader carismatico. Il problema è che il trickster prolifera ovunque. Occorre individuare la causa. Il trickster trionfa perché viviamo in un tempo incerto— liminale, direbbero Arnold van Gennep e Victor Turner, o fuori dall’ordinario, aggiungerebbe Weber. Perché siamo attanagliati dalla paura, dalla perdita del senso di appartenenza—o ‘sense of home’, casa—e dallo smarrimento di legami umani autentici. E perché la politica non risponde, è sorda, si limita alle (necessarie) misure economiche—peraltro con risultati non incoraggianti—senza curare la dimensione esistenziale, senza risolvere la crisi, continuando a essere tutto tranne che carismatica.
Nel novembre 1932 l’intellettuale statunitense Lewis Mumford visitò l’Europa, sempre più preoccupato per l’ascesa del nazismo. In Germania si recò da Karl Mannheim, forse il più acuto scienziato sociale tedesco dell’epoca. Mannheim disse a Mumford di non preoccuparsi: Hitler era ‘solo un clown’. Mannheim aveva ragione. L’unica parola sbagliata era ‘solo’. Occorre un nuovo vocabolario per capire perché leader politici come Trump possano conquistare il potere in momenti di crisi. Comprendere le modalità del trickster è parte della risposta.

 

Non avrei mai potuto scrivere queste note senza le serrate e impegnative discussioni con gli acutissimi e curiosissimi studentesse e studenti del mio corso di Comparative History of Political Systems (MA in International Relations, dipartimento di Scienze Politiche, Luiss) che quindi ringrazio enormemente, di cuore. La responsabilità di quanto scritto, ovviamente, è interamente mia.

 

L'autore

Rosario Forlenza è Assistant professor di Storia Contemporanea e Antropologia Politica al dipartimento di Scienze Politiche, Luiss.


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