Election day: perché oggi si decide l’identità americana

3 novembre 2020
Editoriale Open Society off
FacebookFacebook MessengerTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Ci siamo. Oggi si terranno le elezioni americane per scegliere il presidente (per 4 anni), i 435 membri della Camera dei rappresentanti (per 2 anni), 35 senatori (per 6 anni), oltre che i rappresentanti di 86 delle 99 camere legislative degli stati e 11 governatori statali. In America, per votare, occorre registrarsi. Si presume che più di 150 milioni di elettori registrati voteranno, quasi 90 milioni di elettori registrati lo hanno già fatto (con voto postale o early voting). Secondo U.S. Elections Project, quest’anno la partecipazione elettorale sarà la più alta del secondo dopoguerra (sopra il 62 per cento degli elettori potenziali, che sono 240 milioni, molto di più rispetto agli elettori registrati). Una mobilitazione simile, in tempi di pandemia, conferma la polarizzazione in atto nel Paese. Per Michael Hirsh (su Foreign Policy), oggi (come nelle elezioni del 1800, del 1860 e del 1932) vi è in gioco l’identità del Paese. Un’identità che Donald Trump ha cercato di ridefinire con la sua Politica, prima ancora che con le sue politiche. Vale la pena di capire come.

Conservatorismo estremo ma non eccentrico

Nella politica interna, la presidenza Trump ha perseguito un conservatorismo estremo ma non eccentrico. Ha introdotto una defiscalizzazione radicale che ha favorito i redditi molto-molto alti, oltre ad una deregolamentazione altrettanto radicale che ha consentito (ad esempio) un uso disinvolto delle risorse ambientali. Tali politiche erano state inaugurate dall’allora presidente repubblicano Ronald Reagan ed avevano ispirato anche l’azione di presidenti democratici come Bill Clinton. Trump le ha radicalizzate, con risultati non trascurabili. Prima della pandemia, infatti, la de-fiscalizzazione aveva condotto ad un incremento dell’occupazione, ad una crescita del 4,7 per cento annuale dei salari del quartile più povero dei lavoratori, ad un balzo in alto dei mercati azionari. Naturalmente, come ha argomentato Meghnad Desai della London School of Economics (su OMFIF), quei risultati avevano implicato un aumento del deficit federale, il blocco degli investimenti infrastrutturali, lo svuotamento di agenzie federali cruciali per la salute pubblica (come il Centre for Disease Control and Prevention), il depauperamento dei programmi federali di sicurezza sociale. Ciò ha condotto ad un approfondimento delle diseguaglianze sociali che, a loro volta, hanno alzato la radicalizzazione politica. Si è trattato di politiche legittime, anche se i loro effetti lo sono stati assai di meno. Tant’è che settori importanti della business community, preoccupati della stabilità democratica del Paese, hanno deciso di finanziare la campagna elettorale di Joe Biden (che ha infatti raccolto più finanziamenti elettorali di Donald Trump). Dopo tutto, ha fatto notare Edward Luce sul Financial Times, l’instabilità politica non favorisce l’attività economica. Nella politica estera, Trump ha seguito una linea di unilateralismo radicale non estraneo alla tradizione isolazionista americana. Anche qui, raggiungendo alcuni risultati importanti. Ha imposto la revisione degli accordi commerciali con la Cina, che erano stati a favore di quest’ultima nel passato. Ha favorito un accordo di mutuo riconoscimento tra Israele e alcuni Paesi arabi sunniti, riportando l’Iran sciita all’isolamento nell’area medio-orientale. Naturalmente, come ha argomentato Eliot Cohen (su Foreign Affairs), quei risultati sono stati conseguiti facendo letteralmente vacillare il sistema multilaterale. La preferenza per azioni unilaterali ed accordi bilaterali ha trasformato il commercio internazionale in un campo di battaglia, attivando guerre doganali che hanno penalizzato tutti i Paesi coinvolti. Il disdegno nei confronti degli alleati storici (come i Paesi europei della NATO) e la simpatia mostrata nei confronti di dittatori conclamati (tra cui lo stesso Xi Jinping) hanno indebolito il potere di dissuasione americano, rendendo il mondo più insicuro.

La Politica di Trump

Criticabili o meno, comunque, le politiche perseguite dal presidente Trump non sono estranee al conservatorismo americano. Invece, ciò che è estranea, a quest’ultimo, è la Politica da lui adottata. Trump ha messo in discussione le basi costituzionali (scritte e, soprattutto, non scritte) della democrazia americana (cioè i suoi valori, i suoi principii e le sue pratiche), come nessun presidente conservatore aveva mai fatto. In particolare, ha rovesciato come un calzino il ruolo del presidente. Quest’ultimo è l’unico official del sistema di governo separato che rappresenta il Paese, in quanto è (allo stesso tempo) capo dell’esecutivo e capo dello stato. Come capo dello stato, il suo compito costituzionale è di tenere uniti gli elettori, rappresentando anche coloro che non lo hanno eletto. Trump, invece, è stato solamente un capo dell’esecutivo, trasformando la presidenza in un’istituzione iper-partigiana con cui aggredire gli avversari politii. La Speaker democratica della Camera è stata additata come una “bruttissima persona”, il candidato rivale per la presidenza come un “politico estremamente corrotto”, i suoi critici nei media come dei “bugiardi a pagamento”. Dopo tutto, durante l’impeachment, denunciò il sistema di checks and balances come un’anticaglia. Trump ha usato la presidenza per costruire una realtà alternativa, per diffondere veleno nell’opinione pubblica, per denigrare le verità scientifiche che potevano danneggiarlo (come quelle che lo invitavano a prendere sul serio il Covid-19), per mettere in dubbio l’integrità del processo elettorale (se vincerà il suo avversario). Ma soprattutto ha alimentato, con i suoi tweet ossessivi e dichiarazioni estemporanee, la polarizzazione sociale, difendendo le violenze pubbliche e private contro afroamericani (che, a loro volta, hanno suscitato le violenze dei gruppi della sinistra radicale). La Politica di Trump, dunque, ha ulteriormente polarizzato il Paese, delegittimando la sua costituzione liberale.

Ecco perché, oggi, si deciderà l’identità dell’America. Quest’ultima è da sempre contrastata, tra chi la vuole inclusiva e tollerante e chi invece esclusiva e intollerante. Questa volta, però, girare l’angolo appare particolarmente difficile. Coloro che mettono Biden sullo stesso piano di Trump, ha scritto pochi giorni fa l’Economist, “dovrebbero fermarsi un attimo e pensare”.

Questo articolo è precedentemene apparso sul Sole 24 Ore il 31 ottobre 2020. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


Website
Newsletter