Tra false speranze e legittime aspirazioni: elezioni USA e politica estera europea
9 novembre 2020
Comprendere la vittoria di Biden
Per comprendere le conseguenze che la vittoria di Joe Biden alle elezioni presidenziali americane potrebbe avere sulla politica estera europea, è necessario prima di tutto delineare le caratteristiche qualificanti della presidenza del suo predecessore nell’arena internazionale e le loro implicazioni. Senz’altro Donald Trump ha condotto la politica estera americana in maniera eccentrica e controversa. Non a caso, è stato il primo presidente americano ad aver affrontato una procedura di impeachment per questioni legate ad essa. Ciononostante, negli ultimi quattro anni il suo mandato è stato caratterizzato sia da aspetti strutturali che da elementi contingenti. Per poter delineare i possibili elementi di continuità e le probabili linee di rottura della presidenza di Biden, è essenziale identificare quali siano stati gli elementi sistemici – in cui si sono inserite le azioni di Trump – e quali gli elementi contingenti – riconducibili alle sue caratteristiche personali e a quelle della sua amministrazione più in generale.
Il progressivo disfacimento politico di Trump
In primo luogo, la presidenza Trump si è inserita in un disfacimento progressivo, già in corso, dell’ordine multilaterale, sostanzialmente accelerandone la crisi. La logica di fondo dell’attività di Trump in politica estera è stata quella di un generale unilateralismo. Occasionalmente, tale unilateralismo ha lasciato spazio ad interazioni cooperative. Tuttavia, si è trattato per lo più d’interazioni bilaterali, anziché di cooperazioni tra una molteplicità di attori, proprie del multilateralismo. La preferenza per il bilateralismo del presidente uscente trova una delle sue massime espressioni in Europa nel suo sostegno a BREXIT e all’ambizione di Boris Johnson di creare un anglo-sfera. Tramite tale sostegno, Trump ha di fatto supportato l’uscita dall’UE della seconda potenza militare, nonché nucleare, europea.
In questo contesto si colloca anche la pressione esercitata da Washington perché gli alleati Europei aumentassero le proprie spese per la difesa. Altri presidenti americani prima di Trump, incluso Barack Obama, avevano chiesto che gli europei cessassero il free-riding rispetto alla propria sicurezza. La spesa degli Europei per la difesa, effettivamente, è salita da quando Trump ha iniziato il proprio mandato. Allo stesso tempo, la combinazione di BREXIT e delle pressioni americane ha creato terreno fertile per un dibattito sull’autonomia strategica europea e gettato le basi per iniziative come PESCO. Il punto rilevante, però, è che le pressioni di Trump in tale senso non sono state controbilanciate da rassicurazioni riguardo l’impegno degli USA alla difesa collettiva prevista nel Trattato Nord Atlantico.
In medio oriente, l’unilateralismo della presidenza Trump è esemplificato dalla decisione di abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano. Una decisione accompagnata da pressioni sui paesi europei perché anch’essi imponessero sanzioni economiche all’Iran, nonostante la volontà dell’UE di salvare tale accordo. Con la decisione unilaterale di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme, invece, Trump ha rischiato di scatenare una nuova intifada, nel malcelato tentativo di galvanizzare l’elettorato americano filo-israeliano e di lasciare il segno in un dossier storicamente di grande interesse per i presidenti americani.
Trump e i leader di regimi autoritari
L’accelerazione del disfacimento dell’ordine multilaterale da parte di Trump è avvenuta non solo rispetto alle modalità che caratterizzano le interazioni tra attori internazionali in un sistema multilaterale, ma anche per quanto concerne i valori e principi che lo qualificano. Trump ha mostrato di disdegnare i principi e i valori che, in passato, avevano reso gli USA un egemone benevolo nelle relazioni internazionali. Così facendo, ha dato adito alle critiche mosse da Cina e Russia secondo le quali il ruolo americano nell’arena internazionale sarebbe impregnato di cinismo. Nel corso della sua presidenza, ha flirtato con leader di regimi autoritari. Non ha nascosto la propria ammirazione per Recep Erdogan e Vladimir Putin, nonostante la diffidenza delle istituzioni americane rispetto al loro stile di governo. In Siria, l’amministrazione Trump ha contribuito in maniera sostanziale alla sconfitta di ISIS, non da ultimo tramite la simbolica uccisione del capo della rete terroristica Abu Bakr al-Baghdadi. Tuttavia, Trump ha poi lasciato il terreno ad un regime sanguinario, quello di Bashar al-Assad, e sdoganato l’intervento della Turchia verso i curdi, dopo aver cooperato con loro nella lotta ad ISIS. Certamente, Trump è anche andato oltre le mere relazioni bilaterali. Lo ha fatto, però, per lo più in funzione della propria politica domestica, ponendo gli interessi americani prima di tutto. Sostenendo il riconoscimento di Israele da parte degli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein, ad esempio, ha gettato le basi per una coalizione tra paesi sunniti con l’obiettivo di isolare l’Iran sciita. Mentre la recente rimozione dalla lista dei paesi che finanziano reti terroristiche del Sudan in cambio del suo riconoscimento di Israele, di fatto, è servita da stoccata pre-elettorale per il Presidente.
L’isolamento
In secondo luogo, le azioni di Trump si sono inserite in una tendenza all’isolazionismo da parte degli USA e di uno spostamento degli interessi strategici americani verso l’Asia. Si tratta di una tendenza già inaugurata con l’amministrazione Obama, i cui esempi nel vicinato europeo sono stati la strategia “leading from behind” durante l’operazione NATO in Libia nel 2011 e la decisione di non intervenire in Siria. Durante la presidenza Trump, tale tendenza ha portato gli USA ad interventi limitati, selettivi e per lo più volti al soddisfacimento di necessità della politica domestica americana. Molti credevano che la presenza di Trump nello Studio Ovale avrebbe scatenato nuove guerre. Ciò non è accaduto. Tuttavia, se da un lato, l’amministrazione Trump ha continuato il disimpegno dal vicinato europeo, dall’altro, ha creato le condizioni per ulteriore instabilità nella regione del Nord Africa e del Medio Oriente. Il “Piano del Secolo” dell’amministrazione americana per risolvere la questione Israelo-Palestinese è talmente sbilanciato a favore di Israele che difficilmente verrà implementato in un futuro prossimo. Le pressioni di Trump su Hezbollah hanno di fatto prolungato la crisi politica in Libano. In Libia, la generale assenza di una sostanziale presenza americana e di un approccio coerente alle divisioni tra il governo di Fayez al-Serraj – riconosciuto dalla comunità internazionale – e quello di Khalifa Haftar, ha lasciato spazio ad influenze di attori esterni nel paese, soprattutto Russia e Turchia.
L’identità europea messa in discussione
Accelerando l’erosione dell’ordine multilaterale ed accentuando l’atteggiamento multipolare dell’ordine internazionale, Trump ha creato un vacuum, che l’UE non ha saputo riempire. Ciò ha inevitabilmente messo in discussione l’identità stessa dell’UE come attore internazionale che, fin dalla fine della guerra fredda, e non ultimo nella Strategia Globale del 2016, ha fatto del multilateralismo il proprio marchio di fabbrica. Allo stesso tempo, il disimpegno americano dal vicinato europeo non è stato rimpiazzato da politiche comuni efficaci da parte dell’UE. Quest’ultima, nonostante i considerevoli investimenti nella regione, continua a non avere un ruolo di game changer. In Libia, ad esempio, gli stati membri sono giunti fino al punto di sostenere diverse fazioni, con il riconoscimento di Haftar da parte del Presidente Francese Emmanuel Macron. In Siria, l’UE è stata praticamente assente.
Verso nuovi rapporti inernazionali
È molto probabile che con la recente vittoria di Biden cambieranno le modalità di interazione degli USA con i propri partner internazionali, i principi e valori perseguiti – o quantomeno la loro rappresentazione-. Contrariamente a Trump, Biden è un sostenitore del multilateralismo e delle relazioni transatlantiche. La sua elezione porterà senz’altro a tentativi da parte dell’amministrazione americana di riallacciare i rapporti con gli alleati europei e di rinvigorire la NATO. Prima di tutto, Biden non sosterrà più BREXIT e l’atteggiamento sprezzante di Johnson verso il progetto di integrazione europea. Nel perseguire una ricostituzione dell’ordine multilaterale, sarà certamente più volenteroso di Trump nella rappresentazione dei valori tipici dell’ordine liberale. Nel vicinato, l’approccio che presumibilmente Biden adotterà rispetto alla NATO avrà implicazioni soprattutto sulla Turchia. Se, da un lato, Biden avrà bisogno di Erdogan nel suo sforzo di ricostruzione delle relazioni transatlantiche, di certo non sarà tollerante quanto Trump riguardo le violazioni di diritti umani e l’acquisto di missili russi da parte di Ankara.
Sarebbe, però, utopistico credere che l’elezione di Biden possa risolvere le incoerenze e le inefficienze che la politica estera dell’UE ha manifestato nel proprio vicinato. Riguardo l’uscita degli USA dall’accordo sul nucleare Iraniano, Biden probabilmente cercherà di estrarre delle nuove concessioni da parte dell’Iran, soprattutto rispetto all’armamento di Hezbollah da parte del regime iraniano. In aggiunta a ciò, è molto probabile che il nuovo presidente non cambi completamente atteggiamento rispetto al conflitto Israelo-Palestinese. Certamente Biden rilancerà un dialogo con i Palestinesi. Ma ha anche già affermato che lascerà l’ambasciata americana a Gerusalemme. Su questo sfondo, gli elementi sistemici, ovvero la crescita dirompente del multipolarismo, e il crescente disimpegno americano dal vicinato europeo continueranno. La sfida di Biden sarà la Cina, non il vicinato europeo. Sarebbe opportuno che l’UE lo tenesse a mente.
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