Cosa ci insegna il caos americano?
19 novembre 2020
Una transazione difficile
Non c’è solamente il caos, in America, dietro l’infida transizione presidenziale (così definita da Ivo H. Daalder e James M. Lindsay su Foreign Affairs). C’è la debolezza del sistema interno di checks and balances (di controlli e bilanciamenti) su cui si basa la democrazia liberale americana per contenere gli impulsi autoritari (dei leader o degli elettori). Una vicenda su cui occorre riflettere.
In America, il vincitore delle elezioni presidenziali deve attendere due mesi e mezzo per entrare alla Casa Bianca (o per inaugurare la sua seconda amministrazione nel caso di un presidente in carica rieletto). Un periodo lunghissimo, se si pensa che in Francia (dove il presidente della repubblica viene però eletto direttamente) dura solamente dieci giorni. Si tratta di un vero e proprio interregno (nel caso non si tratti del rinnovo del mandato presidenziale) tra un presidente-in-carica che mantiene il potere legale ed un presidente-eletto che ha acquisito il potere legittimo. Per evitare di esporre il Paese a minacce alla sua sicurezza nazionale durante tale interregno, la legge ha regolato minuziosamente (Presidential Transition Act del 1963) il processo per il passaggio dei poteri dal presidente legale al presidente legittimo (in particolare per quanto riguarda il trasferimento delle informazioni strategiche e delle risorse finanziarie per organizzare la nuova presidenza). Ma ciò che quella legge non poteva prevedere era l’indisponibilità del presidente-legale a riconoscere il presidente-legittimo. Donald Trump continua a disconoscere la vittoria di Joe Biden (nonostante la differenza, a favore di quest’ultimo, di 74 voti elettorali e 5 milioni di voti popolari), sulla presupposizione (priva di ogni evidenza) che le elezioni siano state truccate dai suoi avversari. Le leggi statali prevedono già la possibilità del riconteggio dei voti là dove (come in Georgia o in Arizona) il margine di vittoria è minimo, ma non là dove il margine è ampio e non si dispongono di evidenze su brogli che potrebbero ridurlo. Cosa succederebbe se anche Joe Biden chiedesse (a prescindere dall’evidenza) di ricontare i voti negli stati in cui Trump ha vinto?
Solidità dei meccanismi di controllo
Naturalmente, anche le precedenti transizioni non sono state pacifiche. Nel dicembre 2000, ad esempio, Bill Clinton sottoscrisse (con un ordine esecutivo) il Trattato che istituiva la Corte penale internazionale, pur sapendo che George W. Bush era decisamente contrario (infatti, appena entrato in carica, ritirò quella firma con un altro ordine esecutivo). Tuttavia, questa volta, Trump è andato molto oltre una controversia di policy o una incompatibilità di carattere. Si è auto-proclamato il vincitore delle elezioni, con la complicità dei segretari alla Giustizia e agli Esteri, i cui dipartimenti (nel sistema americano) avrebbero invece il compito di esercitare un check nei confronti del presidente. Inoltre, ha licenziato quei membri della sua stessa amministrazione (come il segretario alla Difesa, un dipartimento di cruciale importanza) che non avevano condiviso le sue scelte. Come se non bastasse, ha imposto con successo ai senatori repubblicani di sostenere la sua posizione. Non solamente Trump ha messo in discussione la legittimità del processo elettorale, ma ha anche neutralizzato i formali checks and balances (del potere esecutivo e legislativo) pensati per controllare il presidente. Trump ha portato alle estreme conseguenze la unconstrained presidency (la presidenza senza vincoli, così definita da James Goldgeier e Elizabeth Saunders su Foreign Affairs) emersa dopo il drammatico 11 settembre 2001. Per funzionare, il sistema interno di checks and balances richiede il consenso dei principali leader politici sulle regole, scritte e non-scritte, che lo costituiscono. Se i leader del populismo autoritario, da Donald Trump a Viktor Orban, rifiutano tale consenso, come se ne esce?
Populismo autoritario
Da sempre, le democrazie liberali sono vulnerabili all’assalto del populismo autoritario. L’equilibrio tra democrazia e liberalismo è costituzionalmente fragile. La prima si basa sul consenso elettorale, il secondo ha invece il compito di regolare quest’ultimo. Nelle democrazie liberali i voti non bastano per legittimare il potere. Dopo tutto, anche Mussolini e Hitler andarono al potere attraverso i voti. Ecco perché, se i checks and balances istituzionali non bastano per contenere il populismo autoritario, allora è necessario che si attivino i contro-bilanciamenti politici. Nel caso di Trump, spetterebbe agli esponenti repubblicani prendere le distanze politiche dalle sue accuse infondate. Ma ciò non è avvenuto, come se il partito repubblicano fosse ormai prigioniero della sindrome populista-autoritaria del suo leader. Così, nel silenzio politico interno, il principale contro-bilanciamento politico è provenuto dall’esterno. Come mai era avvenuto nel passato, la legittimità del presidente-eletto (Joe Biden) è stata certificata dai leader degli altri Paesi democratici, oltre che da un leader spirituale come Papa Francesco. Il sistema di checks and balances si è allargato attraverso l’interdipendenza. Nel passato era stata l’America a contrastare gli impulsi autoritari tra i suoi alleati democratici, oggi è stata l’America ad aver beneficiato di un sistema di checks internazionali per contenere i propri impulsi autoritari. Come istituzionalizzare tale sistema?
Insomma, la transizione presidenziale in corso a Washington D.C. è di grande importanza per le democrazie liberali. Nessuna di esse (anche la più longeva, come quella americana) dispone di interni checks and balances sufficientemente robusti per contenere gli impulsi autoritari dei leader populisti che giungono al potere. Ecco perché occorre istituzionalizzare anche i checks and balances esterni alla democrazia liberale nazionale. A livello internazionale, trasformando il Summit delle Democrazie (proposto da Joe Biden) in un’organizzazione permanente di cooperazione politica tra queste ultime. A livello europeo, contrastando il populismo autoritario che si sta consolidando in alcuni stati dell’Europa centrale e orientale, ma soprattutto accelerando l’unione politica tra i Paesi al centro del processo integrativo. Come ha scritto John Ikenberry (A World Safe for Democracy), la democrazia liberale del XXI secolo si difende fuori dai confini nazionali, oltre che al loro interno.
L’articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore il 14 novembre 2020. Riprodotto per gentile concessione
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