Usa, la distribuzione geografica del benessere e l’influenza sul voto

23 novembre 2020
Editoriale Politica
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Negli ultimi dodici anni, il reddito medio degli elettori americani del partito democratico è aumentato di circa il 15%. Quello degli elettori repubblicani invece è diminuito. Non solo i repubblicani sono diventati in media più poveri dei democratici, ma le circoscrizioni elettorali in cui prevalgono i loro candidati contano per meno di un terzo del reddito totale degli Stati Uniti. Da qualche tempo, gli elettori repubblicani non sono più la parte ricca del paese che vuole proteggere le proprie ricchezze dalle tentazioni socialiste dei democratici.

Interpretare secondo i criteri europei convenzionali di destra e sinistra, di diseguaglianze assolute e relative, la realtà sociopolitica americana rischia di portare fuori strada. Anche le letture di moda sulla geo-economia che definiscono il benessere dei cittadini principalmente in base al luogo in cui vivono e lavorano non sono sufficienti. La differenza di reddito tra aree “macropolitane” e paesini di campagna è certo evidente. Tuttavia la distribuzione geografica del benessere è una conseguenza di qualcosa di più profondo che sta cambiando in modo silenzioso. Mentre nel 2016 la distinzione tra grandi metropoli e realtà rurali era ben definita, ora il benessere delle grandi città si sta allargando ai sobborghi circostanti. Mentre prima il benessere si accentrava nel cuore di singole città, San Francisco, New York, Washington o Boston, in grado di coniugare nuove tecnologie informatiche, il miglior capitale umano, servizi professionali di alto livello e università di eccellenza, ora l’onda si è allargata a servizi e professioni che stanno incorporando le tecnologie informatiche prendendo vantaggio sulle attività tradizionali. Ecco che i sobborghi di Atlanta, Phoenix, Las Vegas e Madison, vedono aumentare il loro reddito medio e finiscono per votare democratico spostando sorprendentemente la maggioranza del voto in Georgia, Arizona, Nevada e Wisconsin. Perfino le città di Pittsburgh e Philadelphia, una volta emblema della decadenza delle vecchie produzioni, stanno lentamente incorporando nuove tecnologie e nuovi lavori a reddito crescente. Non a caso è stata proprio la Pennsylvania a determinare nel modo più significativo la nuova maggioranza per il presidente Biden.

Può sembrare che questo sviluppo abbia una sua determinazione storica che i “progressisti” accoglieranno con sollievo: una popolazione in sviluppo, sempre più colta e contraria ai richiami isolazionisti, xenofobi o razzisti del presidente Trump. Ma anche in questo caso – come nella rivisitazione delle identità sociali di destra e sinistra – è necessario procedere con cautela. Il giorno delle elezioni presidenziali, si è tenuto anche un referendum in California che ha aperto uno spiraglio inquietante sull’identità politica degli elettori democratici. I cittadini infatti hanno votato contro la legge statale che voleva garantire ai “riders” lo stato di lavoratori dipendenti. Forse a determinare il risultato è stata la propaganda delle piattaforme, come Uber o Lyst, che hanno coperto il 90% delle spese totali di pubblicità. Tuttavia, quello stesso giorno i californiani hanno anche respinto le proposte a favore della “affirmative action” (politiche favorevoli ai meno benestanti) o del controllo degli affitti (nei quali si riflettono le gravi disuguaglianze di reddito dello Stato). Se questa è l’impronta politica degli elettori democratici – ricchi, colti, ma meritocratici – forse bisogna ripensare alcune classificazioni politiche.

In Florida un elettorato prevalentemente repubblicano ha invece votato con schiacciante maggioranza l’approvazione del salario minimo senza per altro che Trump abbia detto una parola in materia. Alla fine la quota di elettorato di Trump è la stessa di John McCain nel 2008 o Mitt Romney nel 2012 (46-47%) ma è l’elettorato che continua a cambiare. Così come per i democratici sarà difficile tenere assieme l’elettorato dei sobborghi e quello giovane e radicale delle metropoli.

La ragione di quello che sta succedendo è che da circa venti anni la società americana sta vivendo un fenomeno diverso dalla sola diseguaglianza e che io chiamo “divergenza secolare”. Per una parte dei cittadini il declino personale sembra inarrestabile e immotivato, suscita sentimenti di rabbia e inganno che il presidente Trump aveva personificato perfettamente. Per l’altra parte, la propria personale ascesa si identifica con qualità proprie, di istruzione e mobilità, ma sembra distaccata dalle sorti degli altri e soprattutto da quelle dei perdenti. Queste componenti non assorbono tutta la realtà dei due partiti, democratico e repubblicano, ma sono proprio le loro frange che danno voce a sentimenti fortemente antagonistici.

È in questo difficile quadro, destinato a cambiare nel tempo, in ragione degli sviluppi strutturali di tecnologia ed economia, che l’elezione di un presidente come Joe Biden, con una forte vocazione centrista, con una personalità non controversa e con poca presa polemica, rappresenta un attimo di respiro di importanza eccezionale per fare il punto sul rapporto tra capitalismo e  democrazia.

Questo articolo è precedentemente apparso su Repubblica il 19 novembre 2020. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Carlo Bastasin, Senior fellow della Luiss School of European Political Economy (Roma) e di Brookings Institution (Washington), autore di “Viaggio al termine dell’Occidente” (Luiss University Press)


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