L’evoluzione dell’internazionalismo americano dipenderà anche dall’Europa. Ecco perché

25 novembre 2020
Editoriale Open Society off
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In America si è aperto un grande dibattito sul ruolo internazionale del Paese. Naturalmente, non è sufficiente la vittoria di Joe Biden per rovesciare il paradigma nazionalista. Anche perché il nuovo presidente democratico dovrà fare i conti con un Senato in cui i repubblicani avranno un potere (di decisione o di veto) inattaccabile. Tuttavia, è indubbio che America First non è più l’unica prospettiva che circola in città. Nello stesso tempo, la vittoria di Joe Biden ha riaperto la discussione europea sul futuro delle relazioni transatlantiche. Il dibattito americano e quello europeo hanno caratteristiche comuni, oltre ad influenzarsi reciprocamente. Spiego perché.

Il nazionalismo perde nelle urne, ma è ancora una realtà

Cominciamo dall’America. Il nazionalismo di Trump ha perso nelle urne, ma anche nella realtà. L’accordo commerciale di libero scambio, siglato pochi giorni fa dai dieci stati dell’ASEAN con Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda (Regional Comprehensive Economic Partnership o RCEP), è infatti una sconfitta di America First. Con quell’accordo si è costituito un blocco commerciale (che rappresenta il 30 per cento della popolazione mondiale e 1/3 del Pil globale) senza l’America. Dopo tutto, Trump aveva unilateralmente cancellato l’accordo di Trans-Pacific Partnership (TPP) negoziato dal Barack Obama nel 2016, pensando di poter imporre negoziazioni commerciali bilaterali ai Paesi asiatici (in particolare alla Cina). Così, mentre l’America abbandonava il multilateralismo, la Cina lo ha rilanciato. La sconfitta del nazionalismo trumpiano ha quindi riaperto la discussione sulla sua alternativa internazionalista. Due versioni distinte di internazionalismo sono emerse. La prima, l’internazionalismo realista (Graham T. Allison), ritiene che il multilateralismo tradizionale non rappresenti più una prospettiva politicamente percorribile, proprio per i costi sociali ed economici indotti dalla gestione multilaterale della globalizzazione. L’America del nuovo internazionalismo deve rinunciare alle proprie illusioni (Nadia Schadlow), riconoscere che è entrata nell’età della “competizione tra grandi potenze” (Elbridge A. Colby e A. Wess Mitchell), usare razionalmente la logica di potenza lasciata in eredità da Trump (Richard Fontaine). La seconda versione, l’internazionalismo liberale (Richard Haas), ritiene invece che il sistema multilaterale vada aggiustato, ma non abbandonato. Attraverso un rinnovato multilateralismo è possibile riportare i diritti umani nell’agenda internazionale (Samantha Power) o comunque trovare soluzioni negoziate alle controversie economiche e politiche (Susan Rice). Anche se Biden appare vicino all’internazionalismo liberale, i fatti potrebbero spingerlo verso l’internazionalismo realista.

Il ruolo fondamentale dell’Europa

Vediamo ora l’Europa. Anche qui il nazionalismo è in difficoltà. I Paesi in cui governa (come Polonia e Ungheria) sono ai margini della politica europea, come ai margini è finito il Regno Unito nazionalista di Boris Johnson. La necessità di rispondere alla pandemia, oltre che di proteggere l’Ue dalle sfide esterne, ha rilanciato l’europeismo. Ma anche nel nostro caso, sono individuabili due versioni distinte di europeismo. La prima, l’europeismo realista, ritiene che l’Europa debba limitarsi a preservare il tradizionale sistema multilaterale, accettando di svolgere un ruolo subalterno nei confronti dell’America, specialmente ora che quest’ultima ha un presidente filo-Atlantico come Biden. Per la ministra tedesca della difesa Annegret Kramp-Karrenbauer, “l’Europa rimane dipendente dall’America per la protezione militare, sia nucleare che convenzionale” (Politico, 2 novembre), così come (per altri) l’Ue deve rimanere dipendente dai suoi stati membri per affrontare sfide esistenziali come la pandemia. Per l’europeismo realista, occorre ristabilire l’equilibrio transatlantico messo in discussione da Trump all’esterno e l’equilibrio intergovernativo messo in discussione dal Covid-19 all’interno. La seconda prospettiva, l’europeismo autonomista, ritiene invece che indietro non si possa andare. Con una lunga intervista (Le Grand Continent, 16 novembre), il presidente francese Emmanuel Macron ha argomentato che l’elezione di Biden non cambia la necessità di dotare l’Europa di una sua “autonomia strategica”, così che possa agire “come un attore politico internazionale distinto sia dall’America che dalla Cina”. Per Macron, occorre accelerare il processo di formazione di un’Europa-potenza che agisca autonomamente in un sistema di grandi potenze. Così come aveva proposto, nei mesi scorsi, di dotare l’Europa di una sua sovranità fiscale per rispondere alla pandemia, Macron propone oggi di dotarla di una sua sovranità di difesa per rispondere alle sfide alla sua sicurezza. Una proposta che ha non poche ambiguità. Come si concilia la sovranità europea nella politica internazionale con il seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che continua a rimanere francese? Oppure, quando Macron dice “che non c’è un sistema migliore della sovranità vestfaliana”, come si concilia tale celebrazione dello stato nazionale con la sovranità sovranazionale che propone?

Insomma, alla Casa Bianca è ritornata l’America internazionalista. Tuttavia, viste le divisioni nel sistema di governo e nella società, essa avrà difficoltà a definirsi. L’evoluzione dell’internazionalismo americano (in particolare sul futuro transatlantico) dipenderà anche da ciò che farà l’Europa. Come hanno scritto Jean-Yves Le Drian e Heiko Maas, ministri degli esteri francese e tedesco, “gli europei non possono più chiedersi cosa può fare l’America per loro, ma cosa essi possono fare per garantire la propria sicurezza e per costruire una più bilanciata partnership transatlantica” (Washington Post, 16 novembre). Dopo tutto, ha osservato Enrico Letta (Politico, 15 novembre), “la sicurezza dell’Europa non può dipendere da qualche migliaia di voti in Nevada, Arizona o Pennsylvania”. Mai come ora, un’alleanza equilibrata tra l’America e l’Europa è necessaria per definire un nuovo sistema internazionale e trans-atlantico capace di garantire sicurezza e stabilità.

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore il 21 novembre 2020. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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