Unione Europea e valori fondamentali: approfittare della crisi per un salto in avanti

26 novembre 2020
Editoriale Europe
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Dopo mesi di complessi negoziati tra il Consiglio e il Parlamento Europeo, sembrava che il 5 novembre si fosse finalmente trovato un accordo per sbloccare il bilancio europeo per il periodo 2021-2027 e il Fondo per la Ripresa. Il dossier si è tuttavia incagliato sul veto di Polonia e Ungheria, che hanno ritenuto inaccettabile la condizionalità legata allo Stato di diritto.

Il veto pone l’ennesimo ostacolo al percorso di uno strumento fondamentale per superare la crisi e rilanciare la crescita; soprattutto, evidenzia l’inadeguatezza del quadro normativo europeo proprio riguardo all’insieme di valori sui quali l’Unione è stata costruita.

Tra i criteri definiti al Consiglio europeo di Copenaghen nel giugno 1993, che i paesi candidati devono soddisfare come prerequisito per diventare membri, figura in primo luogo la stabilità delle istituzioni che garantiscono la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani e il rispetto e la protezione delle minoranze. Come per i criteri di accesso all’euro definiti dal Trattato di Maastricht, insomma, l’Unione si è dotata degli strumenti per impedire l’accesso al club a candidati ritenuti non idonei. Tuttavia, mentre nel caso della moneta unica ci si è premurati per tempo di concepire un insieme di norme (il Patto di Stabilità, regola peraltro alquanto discutibile) per regolare il comportamento degli Stati una volta che questi fossero entrati a farne parte, nel caso dei valori questo non è avvenuto. È come se il gestore del club avesse messo controlli all’ingresso sull’obbligo di cravatta, dimenticando di prevedere sanzioni per chi una volta dentro la togliesse.

Certo, con il Trattato di Amsterdam  si è cercato di rimediare introducendo il famoso Articolo 7 del TUE che consente al Consiglio di sanzionare (ad esempio privando del diritto di voto) un paese che violi lo Stato di diritto o porti nocumento ad uno dei principî fondamentali dell’UE (definiti nell’Articolo 2 del TUE). Tuttavia, l’articolo 7 non “morde”, perché richiede che la constatazione della violazione sia fatta all’unanimità dal Consiglio (ovviamente escludendo il paese coinvolto). Per cui anche una minoranza di due paesi (ad esempio… Polonia e Ungheria!) può di fatto renderlo inapplicabile, ognuno opponendo il veto alla procedura riguardante l’altro. L’Articolo 7 è “in pratica quasi impossibile da utilizzare”, per usare le parole dell’ex Commissario UE alla Giustizia, Viviane Reading. La mancanza di garanzie efficaci affinché i principi fondamentali siano soddisfatti anche dopo l’adesione è insomma uno dei “peccati originali” dell’UE. che la crisi di queste settimane sta facendo emergere in tutta la sua evidenza.

Come si sana questo peccato originale? La risposta è necessariamente articolata a seconda dell’orizzonte temporale che si intende adottare. La crisi in corso vedrà sperabilmente Polonia e Ungheria tornare sui propri passi, soprattutto se le diplomazie troveranno un modo di far salvare loro la faccia. Infatti, da un lato il costo economico di un “esercizio provvisorio” sul bilancio europeo sarebbe molto alto soprattutto per i due paesi ribelli, beneficiari netti del bilancio pluriannuale e del Fondo per la Ripresa (cosa di cui sembrano peraltro consci gli stessi cittadini dei due paesi); dall’altro lato, in linea di principio i 25 paesi rimanenti potrebbero mandare avanti proprio il Fondo per la Ripresa tramite una “cooperazione rafforzata”, come proposto tra gli altri da Guy Verhofstadt. È ovvio che la procedura sarebbe complessa e rallenterebbe l’erogazione di fondi che i paesi europei attendono con impazienza. Ma l’esistenza di una soluzione alternativa, per quanto farraginosa, rende ovviamente il potere di veto meno forte.

La soluzione che, ne siamo sicuri, verrà in un modo o l’altro trovata alla crisi in corso, non risolve tuttavia il problema di fondo della mancanza di meccanismi sanzionatori per paesi che una volta entrati nell’Unione non ne rispettano i principî fondamentali. La forza persistente dei movimenti antisistema in molti paesi europei rende urgente una soluzione permanente che consenta di evitare future crisi sui valori.

Nel lungo periodo il “peccato originale” può essere lavato solo attraverso una modifica dei Trattati. Nell’ipotesi più minimalista occorre cambiare l’Articolo 7 e superare la regola dell’unanimità per la constatazione di violazioni dei valori europei. Una riforma dell’Articolo 7 sarebbe il minimo sindacale per dotare l’Unione di un reale potere sanzionatorio nella salvaguardia dei valori. Volendo essere più ambiziosi, poi, a questa modifica se ne dovrebbe aggiungere una più strutturale, che rafforzi gli strumenti esistenti, ne crei di nuovi e li ottimizzi in una coerente visione d’insieme. Si potrebbe, allora, superare l’attuale insieme di dispositivi – spesso frutto di aggiunte successive e, dunque, non figlie di uno sguardo complessivo – e creare un unico quadro di monitoraggio, direttamente ispirato sia alla governance economica che al processo di adesione di un Paese all’Unione.

Sull’esempio di quanto oggi avviene per la sorveglianza economica tramite  la Procedura per gli squilibri macroeconomici, si potrebbe creare un meccanismo di sorveglianza dell’aderenza ai valori. Come per gli squilibri macroeconomici, si cercherebbe di identificare in maniera preventiva situazioni problematiche, producendo raccomandazioni e in caso di inosservanza, sanzioni. Alle sanzioni (rese più efficaci) previste dall’Articolo 7, come la privazione del diritto di voto, potrebbero essere affiancate sanzioni finanziarie legate ad esempio all’erogazione di fondi europei. Si tratterebbe in pratica di estendere a tutti i valori fondamentali la nuova condizionalità introdotta con il Fondo per la Ripresa e con il nuovo bilancio, che ha attirato le ire di Polonia e Ungheria. Come per gli squilibri macroeconomici, occorrerebbe accordarsi su uno scoreboard di indicatori, in questo caso qualitativi oltre che quantitativi. È ovvio che il parallelo con gli squilibri macroeconomici vale fino ad un certo punto, data la natura più elusiva di valori e diritti. Tuttavia, da un lato non si parte da zero e si potrebbero adattare metriche e procedure già utilizzate per valutare l’aderenza ai criteri di Copenaghen durante il processo di adesione dei nuovi Stati membri. Dall’altro lato, le necessarie garanzie potrebbero venire da un coinvolgimento del Parlamento europeo e da un ruolo rafforzato della Corte di Giustizia dell’Unione.

Una revisione così profonda dei trattati non è compito agevole. Ciononostante le condizioni sono oggi riunite: dalle fughe in avanti rese necessarie dalla crisi del Covid (di cui il Fondo per la Ripresa è uno degli esempi più paradigmatici), al Brexit, alle discussioni in sede della Conferenza sul Futuro dell’Europa, tutto spinge perché il cantiere di un ripensamento delle nostre istituzioni sia oggi aperto. La Conferenza, in particolare, appare come un’ottima occasione per coinvolgere i cittadini e discutere dei valori e di come rafforzare il ruolo delle istituzioni europee nel garantirli e promuoverli.

Tuttavia, sia pure auspicabile, il cantiere delle riforme ha un orizzonte temporale di anni, non di mesi. Nel frattempo, nei prossimi mesi occorrerà mettersi al riparo da possibili nuove crisi che mettano l’Unione di fronte al dilemma che vive oggi di fronte alla sfida di Polonia e Ungheria. Occorre insomma che i paesi europei si accordino su princìpi di funzionamento che consentano di rimettere al centro i valori fondanti dell’Unione in attesa di una futura riforma dei trattati. Per questo si potrebbe partire proprio dalla proposta di cooperazione rafforzata evocata sopra.

Il parlamento europeo, nel 2016 e ancora a ottobre di quest’anno, ha proposto la creazione di un meccanismo europeo preventivo, completo ed evidence-based per il monitoraggio della democrazia, dello Stato di Diritto e dei diritti fondamentali. Attraverso una cooperazione rafforzata, gli Stati membri dovrebbero fare propria l’intuizione del Parlamento, impegnarsi a sottostare ad un meccanismo di monitoraggio e accettare che la propria “pagella” sia resa pubblica. Si tratta in altre parole di ribaltare la prospettiva. Se alcuni stati approfittano dei difetti nell’architettura istituzionale dell’Unione e, perciò, è praticamente impossibile certificare che questi abbiano fatto un passo indietro sui valori fondamentali, gli altri dovrebbero fare un passo in avanti, accettando lo scrutinio del pubblico su questi stessi valori. Aspettando che con la modifica dei trattati si possano sanzionare efficacemente i paesi che non rispettano i valori fondamentali, si giocherebbe intanto sull’effetto reputazione e sulla pressione politica che deriverebbe dal rifiuto di sottoporsi allo scrutinio pubblico. Questo non varrebbe solo per Polonia e Ungheria, ma metterebbe all’angolo anche Paesi che nella retorica pubblica difendono i valori, ma nella pratica sono contrari a iniziative comunitarie in questo senso.

Così, si darebbe comunque vita a un processo europeo, trasparente e strutturato, che contribuirebbe a creare un quadro non solo di scambio di best practices, ma anche di dialogo tra Paesi e istituzioni sui valori dell’Unione. Al tempo stesso l’attenzione sulla protezione e la promozione dei valori rimarrebbe alta e sempre presente nell’agenda UE. Questo meccanismo, infine, potrebbe mettere a sistema gli sforzi già esistenti dell’Unione, come ad esempio il lavoro dall’Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali. Uno statement politico, dunque, e una base su cui costruire un meccanismo più strutturato nel momento di revisione dei Trattati.

 

 

Gli autori

Michele Bellini è Executive Officer presso il Paris School of International Affairs, Sciences Po, Parigi.


Francesco Saraceno è membro del consiglio scientifico della Luiss School of European Political Economy e Direttore del Dipartimento di Ricerca dell’OFCE Sciences-Po di Parigi.


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