L’Unione Europea e il governo della legge

2 dicembre 2020
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Tensioni interne

E’ proprio vero che i nodi arrivano sempre al pettine (nella vita di un individuo come in quella di un’organizzazione). In questi giorni, l’Unione europea (Ue) è sottoposta ad una doppia sfida. Ad occidente, c’è una secessione nazionalista (Brexit) che non vuole concludersi. Ad oriente, c’è una degenerazione illiberale (in Ungheria e Polonia) che è addirittura in crescita. Il Regno Unito, ad un mese dalla fine del periodo di transizione che determinerà la sua uscita dall’UE, sta rinnegando le condizioni del recesso che aveva concordato un anno fa con Bruxelles. L’Ungheria e la Polonia, ad un anno dall’esplosione della pandemia, tengono in ostaggio i programmi europei con cui ricostruire il dopo-pandemia. Se Brexit appartiene al passato, il ricatto ungherese e polacco appartiene al presente. Di tale ricatto vale la pena discutere.

Fondi europei

Cominciamo dalle tecnicalità. Entro la fine dell’anno, l’Ue deve approvare (attraverso una speciale procedura legislativa basata sul principio di unanimità) il quadro finanziario pluriennale (QFP) per il periodo 2021-2027, cui è collegato il programma speciale di “Next Generation EU” (NG-EU), il cui finanziamento implica il ricorso a nuove risorse proprie (debito europeo). Il QFP deve essere formalmente approvato dal Consiglio dei ministri, dopo aver ricevuto il consenso del Parlamento europeo. NG-EU deve essere approvato dal Consiglio dei ministri, dopo aver informato il Parlamento europeo. Le nuove risorse proprie debbono essere approvate dal Consiglio dei ministri e quindi ratificate dai parlamenti di tutti gli stati membri dell’Ue. Utilizzando il suo potere formale di consenso, il Parlamento europeo ha imposto con successo un incremento (di 16 miliardi) del QFP (originariamente di 1.074 miliardi), portando l’intero pacchetto finanziario (inclusi i 750 miliardi di NG-EU) a 1.840 miliardi di euro. La normativa sull’esecuzione del bilancio è invece decisa attraverso la procedura legislativa ordinaria, in virtù della quale il Consiglio dei ministri (che vota a maggioranza qualificata) e il Parlamento europeo (che vota a maggioranza semplice) hanno lo stesso potere decisionale. D’accordo con il Parlamento europeo, in una riunione di pochi giorni fa, i rappresentanti permanenti dei governi nazionali hanno approvato (con il voto contrario dei rappresentanti di Ungheria e Polonia) una bozza di regolamento sulla condizionalità per l’ottenimento dei fondi. Essa prevede che la distribuzione delle risorse (sia del QFP che di NG-EU) sia condizionata al rispetto dello ‘stato di diritto’ da parte dei beneficiari, un rispetto che dovrà essere accertato dalla Commissione europea. Poiché il voto contrario dei ministri dei due Paesi non può bloccare la decisione (in quanto quest’ultima viene presa a maggioranza qualificata), i loro primi ministri hanno minacciato di porre il veto nelle altre tre votazioni (che richiedono invece l’unanimità), se le condizionalità relative allo ‘stato di diritto’ non verranno eliminate. Un ricatto vero e proprio che va, per di più, contro i loro stessi interessi.

I governi di Polonia e Ungheria

Quali sono le ragioni del ricatto di Viktor Orban e Mateusz Morawiecki? Essi sostengono che lo ‘stato di diritto’ (il governo delle leggi) è uno strumento politico utilizzato dalle istituzioni europee per “soffocare” la sovranità dei loro Paesi. Non è così, visto che la costruzione di un regime di ‘stato di diritto’ è stata una condizione (per l’Ungheria e Polonia) per potere entrare (nel 2004) nell’Ue. Lo ‘stato di diritto’ è un fondamento costituzionale dell’Ue (Art. 2 del Trattato sull’Unione Europea, TEU) e richiede che l’azione dei governi nazionali sia limitata dalle leggi, che le leggi siano applicabili a tutti coloro che si trovano in situazioni simili, che il rispetto delle leggi sia garantito da un potere giudiziario indipendente e neutrale. Eppure, più volte, sia la Polonia che l’Ungheria sono state denunciate e condannate (dalla Corte europea di giustizia) per aver messo a repentaglio lo ‘stato di diritto’. Lo scorso 30 settembre, la Commissione ha reso pubblico il suo primo Rapporto annuale sul rispetto dello ‘stato di diritto’ nei 27 stati membri da cui risulta che, nei due Paesi in questione, vi è un ingiustificabile controllo governativo del sistema giudiziario (oltre che una riduzione del pluralismo dei media e dell’autonomia delle organizzazioni sociali). Il controllo governativo del potere giudiziario mette in discussione le libertà individuali, la cooperazione giudiziaria tra i Paesi (come nel mandato d’arresto europeo), ma anche lo stesso funzionamento del mercato unico. Se i tribunali sono controllati dai governi, qualsiasi disputa economica tra imprese polacche e ungheresi e imprese di altri Paesi potrebbe essere risolta, a prescindere dal merito, a favore delle prime e a danno delle seconde. Poiché il mercato è una costruzione sociale che dipende dall’esistenza di regole riconosciute come legittime da chi vi partecipa, come potrebbe funzionare il mercato unico europeo senza la certezza del diritto? Le risorse che derivano dalle tasche dei contribuenti europei non possono essere trasferite a governi nazionali che le utilizzano per rafforzare il loro potere illiberale.

L’insostenibile ricatto

Ecco perché, come ha sostenuto il Parlamento europeo, il ricatto dei governi polacco e ungherese non è accettabile, nonostante che il 57 per cento dei cittadini polacchi si dichiari d’accordo con le posizioni del proprio governo. Insomma, se il Regno Unito non ha mai accettato l’aspirazione politica dell’Ue, l’Ungheria e la Polonia ne stanno mettendo in discussione i principi costituzionali. Per il Regno Unito, il mercato unico è un frutteto in cui raccogliere le ciliegie più mature (cherry picking), per l’Ungheria e la Polonia è un distributore di fondi da utilizzare contro chi li fornisce. Quei Paesi hanno bisogno dell’Ue che, però, disprezzano. Pochi giorni fa, l’ungherese Máté Kocsis (capogruppo di Fidesz al Parlamento europeo) l’ha definita “un regime simile alla Gestapo”, pochi anni fa l’inglese Nigel Farage (il promotore di Brexit) l’aveva definita “una burocrazia nazista”. I nodi sono venuti al pettine, obbligandoci a prendere atto che non c’è una unione che possa andare bene per tutti.

Articolo precedentemente apparso sul Sole 24  Ore. Riprodotto per gentile concessione

 

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L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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