Gli esiti dello shock pandemico sull’industria manifatturiera. Scenari di ripresa

7 dicembre 2020
FacebookFacebook MessengerTwitterLinkedInWhatsAppEmail

La pandemia e la manifattura

La manifattura mondiale è tuttora sotto lo scacco della pandemia. L’irrompere dell’incertezza nella vita di famiglie e imprese che il dilagare del covid-19 su scala globale ha determinato, anche al di là dell’effettiva intensità della diffusione della malattia a livello locale, si è subito tradotto in un rinvio delle decisioni di spesa – di consumo e investimento – che ha comportato un parziale blocco simultaneo sia della domanda che dell’offerta. La misura e la velocità con cui i sistemi economici sono riusciti a reagire – grazie a corposi programmi di intervento dello Stato nell’economia volti a contrastare gli effetti immediati dei lockdown via via attivati – ha consentito il recupero di buona parte dei livelli di attività già nei mesi immediatamente successivi allo shock, anche se con forti eterogeneità tra i diversi comparti produttivi. L’incompletezza del recupero (conseguente anche alla rarefazione dei ranghi delle imprese, molte delle quali messe nel frattempo in ginocchio da crisi di liquidità), illumina il vero cuore del problema, che consiste nell’impossibilità di definire a oggi il termine ad quem della fine dell’emergenza.
La cifra dell’incertezza, sotto questo profilo, è tutta nel carattere persistente dello shock, che in primo luogo non è ancora terminato nei suoi aspetti sanitari, ma che in seconda istanza contraddice l’idea che i sistemi economici siano meccanismi che tornano automaticamente all’equilibrio precedente dopo essere stati perturbati da shock esogeni. Siamo dentro uno shock che non è finito: e che seguiterà a condizionare i comportamenti degli operatori lungo un orizzonte temporale la cui ampiezza appare ancora indeterminata.
Da questo punto di vista la consueta metafora del tunnel – per quanto abusata – coglie in pieno il senso di una navigazione al buio (senza riferimenti), e richiama all’attenzione l’esistenza di una path-dependence che potrà implicare una deviazione sistematica del percorso di sviluppo dei sistemi manifatturieri dalla deriva che li ha accompagnati fin qui. In che misura, e in che direzione?
Il vorticoso succedersi dei contributi più o meno scientifici dedicati alla questione, che sta affollando ogni spazio della comunicazione, ruota intorno a una questione-chiave: oltre alle sue conseguenze nefaste su molte attività dei servizi, che appaiono immediatamente evidenti, esistono effetti diretti e specifici – al di là di quelli generali implicati dall’incertezza – che la natura stessa della pandemia esercita in particolare sulle attività manifatturiere?

La risposta – come viene meglio documentato nel seguito di questo Rapporto – è che esistono, ma risultano relativamente circoscritti, e soprattutto fortemente selettivi sul piano settoriale. Se appaiono ancora minimi gli effetti del lockdown sulla filiera agroalimentare (in una prima fase addirittura messa sotto stress da eccessi di domanda), è sul versante dei beni durevoli (dall’abbigliamento all’arredamento ai mezzi di trasporto privato) e su quello dei beni di investimento che il rinvio della spesa risulta più marcato. Effetti di segno diverso investono segmenti più o meno specifici della manifattura sul terreno della distribuzione, e derivano dall’esplosione del ricorso all’e-commerce nella fase più intensa del lockdown, che verosimilmente si porterà dietro una inerzia delle modalità di acquisto che imporrà ai produttori di molti beni di consumo lo sviluppo di nuove strategie di vendita.
Un impatto potenzialmente maggiore riguarda inevitabilmente la filiera farmaceutico-sanitaria, che assume un ruolo chiave a partire dall’esigenza di garantire la disponibilità sempre e comunque dei presidi necessari a fronteggiare la malattia: sia nell’immediato – ovvero nel corso dell’emergenza in atto – sia nella prospettiva che altri eventi analoghi possano concretizzarsi in un futuro più o meno prossimo, coerentemente con il graduale infittirsi, nel tempo, di fatti epidemici diffusi. Esigenza che appare nuova solo in ragione della rimozione di un problema che era in realtà da lungo tempo sotto gli occhi di tutti. Dentro questo orizzonte, l’emergenza si sta incaricando ora di rendere urgente la riorganizzazione di sistemi sanitari – e delle filiere che li alimentano (servizi e produzione) – che in troppi casi hanno dimostrato di non essere all’altezza dei problemi che un mondo divenuto così interdipendente può scatenare anche all’improvviso. Riorganizzazione che impone il ripensamento della stessa logica delle catene di fornitura – fin qui modellate esclusivamente sulla base dei dettami del commercio globale.

Sotto questo profilo proprio la rilevanza “strategica” di una filiera specifica consente dunque di ricavare da questa esperienza una lezione di carattere generale: la dipendenza commerciale dall’estero, in un contesto suscettibile di blocchi produttivi improvvisi in un paese o in un altro, rende potenzialmente fragile un’organizzazione produttiva frammentata a livello internazionale. È importante sottolineare che in questo caso il problema non è la frammentazione della produzione, ma proprio il suo dislocarsi a scala trans-nazionale. E chiama in causa la possibile re-importazione (re-shoring) di fasi produttive già affidate a fornitori esteri o una loro ridislocazione a scala continentale.
Questo mutamento di prospettiva comporta un cambiamento vistoso dei termini del trade-off che da sempre accompagna la scelta tra produrre direttamente un bene (intermedio o finale che sia) e acquistarlo. Segnatamente, comporta un aumento del costo che si è disposti a sostenere pur di garantirsene la disponibilità. A livello di impresa, si tratta di ridefinire il perimetro delle attività internalizzate e di affrontare il problema strategico della “ridondanza” di risorse necessaria a scongiurare il rischio di blocchi di fornitura (eliminando per quanto possibile casi di single-source dependence). Se considerata a livello di sistemi-paese o di aree continentali (in primo luogo nel caso europeo), la questione si traduce in un accorciamento delle reti di fornitura che passa per il ricostituirsi di un’offerta nazionale (o continentale) in ambiti definiti. Ovvero, nell’avvio di un vero e proprio processo di re-industrializzazione.
Si tratta di un obiettivo estremamente ambizioso (le catene di fornitura non si “trasferiscono” da un paese all’altro imbarcando gli stabilimenti su una nave, ma si ridislocano attraverso processi graduali di crescita differenziale), che non è immaginabile possa realizzarsi attraverso la semplice azione delle forze di mercato senza una strategia di politica industriale market-friendly. Se è questo l’obiettivo da conseguire, è necessario creare le condizioni per ricostruire in tempi rapidi legami di filiera che per loro natura richiedono cura per svilupparsi, per reinserirsi all’interno di traiettorie tecnologiche da tempo abbandonate. Occorre attivare processi capaci di accelerare la formazione di nuovi tessuti produttivi che possano sostituirsi a quelli ormai strutturatisi altrove. Occorre insomma un progetto-paese, nell’ambito di una strategia europea, che disegni un nuovo percorso di sviluppo industriale.
In questo senso, come si argomenta nelle pagine che seguono, è necessaria una discontinuità dello sguardo che incorpori la consapevolezza dei grandi cambiamenti di contesto di cui la pandemia non costituisce che un singolo atto: sancendo la transizione a una nuova fase storica dopo l’esaurirsi di quella che ha caratterizzato lo sviluppo della manifattura mondiale per almeno un trentennio.

Come cambia la globalizzazione

Come diversi studi svolti negli ultimi anni all’interno del Centro Studi Confindustria hanno mostrato, il modello di sviluppo che ha guidato la cosiddetta “Epoca d’oro della globalizzazione” mostrava già da tempo crepe profonde per ragioni largamente endogene, tanto da precedere nel suo declino l’insorgere della stessa crisi finanziaria del 2008. L’elasticità del commercio mondiale al PIL era già scesa strutturalmente nel corso degli anni Dieci del nuovo secolo su valori intorno a 1, ossia su livelli decisamente inferiori a quelli degli anni della globalizzazione più intensa (sempre superiori a 2 e in alcuni anni del decennio Novanta superiori a 3), rivelando un ruolo strutturalmente più contenuto del commercio internazionale.
Nella misura in cui proprio il commercio internazionale aveva costituito la leva fondamentale attraverso cui le economie del Nord del mondo avevano garantito la copertura della loro crescente domanda di consumo (via importazioni dalle nuove economie industriali del Sud, grazie al costituirsi di catene di fornitura globali), il blocco del commercio mondiale conseguente alla serie dei lockdown via via succedutisi ha evidenziato immediatamente la misura della dipendenza strutturale delle prime dalle seconde. Così che l’irrompere della pandemia dentro la sfera economica ha segnato, anche simbolicamente, il tramonto definitivo di una fase storica nel corso della quale nei paesi industrializzati il problema produttivo era stato trasformato nel problema di rendere disponibili i beni di volta in volta domandati semplicemente comprandoli in qualche angolo del mondo.

In questo quadro le maggiori economie emergenti avevano già da tempo avviato un deciso ri-orientamento della loro domanda dall’estero all’interno, uscendo da una logica strettamente export-led e accompagnando questo processo con un parallelo accrescimento dell’offerta nazionale, guidate dall’esigenza di non trovarsi intrappolate in un vincolo esterno troppo stringente. Questo significa un mondo già avviato da tempo ad essere commercialmente più chiuso indipendentemente dall’effettivo aumento esogeno del grado di protezionismo nelle politiche commerciali, e da quanto aspro potrà farsi negli anni a venire il confronto di tutti con gli Stati Uniti. Il risultato è il ridimensionamento strutturale, per tutti i sistemi economici, della componente della domanda più dinamica dell’ultimo ventennio.
Questa transizione coincide anche, in questi stessi paesi, con il conseguimento di un tasso di industrializzazione ormai rilevante e tale da implicare l’emergere di un consistente settore terziario, il che si traduce a sua volta in un rallentamento strutturale del loro ritmo di crescita. In questo caso l’effetto sul tasso di crescita è diretto, e arriva dal lato dell’offerta: il peso relativo del settore che consente l’accumularsi di rendimenti crescenti di tipo dinamico si sta riducendo, e con esso il traino che l’espansione sostenuta dell’output manifatturiero garantisce all’aumento della produttività dell’intero sistema economico (sintetizzando: la crescita della produttività nella manifattura è in parte rilevante funzione di quella dell’output; la crescita della produttività per l’intera economia è in larga parte funzione della crescita della produttività nella manifattura).

Un terzo elemento di cambiamento, ancora nelle economie emergenti, è un ruolo meno stringente del Developmental State, che nelle fasi del decollo è massimamente presente per garantire l’orientamento delle risorse del sistema in direzione del processo di accumulazione, e che gradualmente cede il passo al mercato quando la domanda di investimento comincia a lasciare più spazio a quella di consumo. Questo favorisce una complessiva transizione dagli investimenti ai consumi, e dunque implicitamente una riduzione degli effetti moltiplicativi della spesa.
Tutti questi effetti, la cui somma si traduce in una crescita globale più lenta, originano non solo da determinanti di ordine endogeno, ma anche da scelte deliberate (e strutturate) di politica economica, e dunque arrivano per restare: innestandosi sul terreno di una secular stagnation che il lungo boom del commercio internazionale e i suoi effetti positivi sulla crescita mondiale hanno a lungo mantenuto sotto traccia, ma che di fatto costituisce un connotato di fondo del contesto economico a livello globale.
Nel mondo c.d. “avanzato”, e massimamente in Europa, il problema della crescita si poneva invece, prima dell’esplodere della pandemia, in termini dell’abbassamento del livello del potenziale implicato dal
combinato di una politica monetaria inefficace (trappola della liquidità) e di una politica fiscale programmaticamente restrittiva. In Europa questo ha a lungo significato per molti paesi, sulle orme del modello tedesco, la tendenza quasi esclusiva alla ricerca di una domanda effettiva al di fuori dei confini nazionali. Sia i “vecchi” paesi industriali che le “nuove” economie dell’Est hanno impostato da questo punto di vista le loro strategie di crescita su base sostanzialmente individuale: non disponendo alcuno di essi di una domanda interna di dimensioni imponenti, la strategia è stata quella di cercare la domanda altrove.

Con l’esplodere della pandemia l’esigenza di sostenere i redditi, prima ancora che la produzione, ha radicalmente mutato l’ordine delle priorità, accrescendo verticalmente la “domanda di regolazione” e spingendo i governi nazionali – e addirittura l’Unione europea – verso politiche improvvisamente interventiste, senza tuttavia che maturasse una riflessione adeguata e completa sulle strategie industriali di medio e lungo termine: il che comporta la perdurante carenza di visione della politica economica, e il suo procedere a passi brevi  secondo le pressioni del momento. Per le stesse ragioni è immaginabile che il grado di inerzia del nuovo orientamento possa risultare modesto: e che a emergenza finita – al di là della misura e dello stesso significato politico della  nascita di uno strumento importante come il Next Generation eu – la logica della politica economica possa essere nuovamente chiamata a cambiare, lasciando per così dire a mezz’aria strategie messe in campo senza definire preliminarmente un percorso da seguire coerentemente nel tempo.
C’è dunque in questo quadro l’esigenza di (ri)costruire a livello europeo un’offerta che garantisca margini di autonomia in ambiti tanto strategici quanto di fatto abbandonati (vedi i dispositivi medici la cui mancanza ha caratterizzato – e di fatto vincolato – tutta la prima fase di gestione della pandemia in molti paesi) e al tempo stesso di ricostituire una domanda interna largamente evaporata. Occorre recuperare un orientamento produttivo delle economie “avanzate”. Contano ovviamente molto in questa prospettiva le dimensioni assolute dei sistemi economici, e le politiche che essi sono autonomamente capaci di formulare. È il terreno su cui si gioca il ruolo delle istituzioni europee, al tempo stesso chiamate ad agire a scala continentale e a disegnare un nuovo orizzonte di politica economica.;

Ampliare lo sguardo

Assai prima che il lockdown cominciasse a manifestare i suoi effetti, e al di fuori del terreno più propriamente produttivo, al tempo della globalizzazione ha corrisposto l’emergere di una serie di problemi di fondo che si possono dire non meno che epocali: i) il governo della sostenibilità ambientale, reso ancora più critico proprio dal trasferimento di quote imponenti dell’attività di trasformazione nelle economie “in ritardo” (caratterizzate da tecnologie relativamente più inquinanti); ii) l’incepparsi della mobilità sociale all’interno dei sistemi economici dei paesi sviluppati che il processo di globalizzazione ha alimentato, e che l’azione di politica economica ha spesso trascurato depauperando gli investimenti in capitale sociale (scuola, università, sanità, infrastrutture) a vantaggio di una redistribuzione dal respiro corto. Con la conseguenza di minare le basi stesse della fiducia nelle scelte operate all’interno dei sistemi di democrazia rappresentativa; iii) le dimensioni gigantesche assunte dal problema occupazionale nel mondo sviluppato, conseguenti a una lunga serie di “risparmi di lavoro” consentiti nei decenni precedenti da innovazioni tecnologiche spesso modeste (soprattutto nell’ambito dei servizi) e agli effetti dello spiazzamento dovuti alla concorrenza delle economie emergenti. Problema che l’incombere di ulteriori imponenti trasformazioni nell’organizzazione dei processi produttivi – da più parti annunciate come fenomeno globale – sta contribuendo da ultimo a rendere vieppiù minaccioso.
Dunque, siamo dentro un contesto che è fatto di urgenze (la gestione qui e adesso degli effetti dei vari lockdown, per giunta sfasati tra loro e di diversa intensità) e di squilibri strutturali accumulatisi lungo gli anni, che chiedono a loro volta di essere finalmente gestiti. Se certo non è immaginabile entrare in questa sede nel merito di questioni così complesse, pure la loro stessa esistenza impone uno sguardo che non ne perda di vista le implicazioni di breve, proprio per quanto riguarda la definizione delle strategie necessarie a individuare una “via alta” all’uscita dalla crisi. Non è auspicabile uscire dalla crisi attuale – di cui la pandemia non è che l’epilogo – preoccupandosi soltanto di tornare in fretta e furia al “mondo di ieri”.

 La manifattura italiana, adesso

In questo quadro la manifattura italiana sta sperimentando una riduzione del numero di imprese (nel corso dell’ultimo ventennio ne sono uscite dal mercato oltre 240mila, a fronte di poco più di 94mila ingressi) a fronte di un aumento di eterogeneità (dal punto di vista dei presupposti per competere). Il fenomeno è l’effetto di due shock successivi: la globalizzazione (che ha manifestato i suoi effetti su un arco temporale molto lungo) e la crisi finanziaria (esplosa nel 2008). La pandemia rappresenta dunque un terzo shock che si aggiunge e sovrappone i suoi effetti a quelli già in atto. Ciascuno di questi fenomeni agisce in modo diverso dall’altro, ma comunque alzando ogni volta l’asticella per gli operatori e determinando ogni volta un incremento delle uscite.
Si tratta di un problema, perché così si riduce il peso dell’output manifatturiero sul pil, restringendo il perimetro del settore che traina la crescita della produttività a livello aggregato. Questa tendenza è tanto più rilevante quanto più la manifattura tende già a ridimensionarsi in termini relativi per conto suo, e cioè anche in assenza di shock, in ragione del cambiamento che – per ragioni che agiscono dal lato sia della domanda che dell’offerta – accompagna lo sviluppo di qualsiasi sistema economico.
Il ridimensionamento si esprime anche in un indebolimento strutturale di estese aree del Sud del paese, tornate ad allontanarsi da quelle centro-settentrionali (con tutto quello che ciò implica in termini di smantellamento della coesione sociale, e dei costi di gestione delle sue conseguenze). La re-industrializzazione in questo caso significherebbe condurre nuovi soggetti industriali all’interno di territori divenuti sempre meno attrattivi, e spesso anche privi di una domanda locale adeguata. La logica dovrebbe essere quella di promuovere investimenti di tipo greenfield attraverso politiche condizionali, favorendo anche processi di backshoring e mirando a costruire un percorso di insediamento incardinato sull’attivazione di legami strutturati a monte e a valle. Ovvero, fare il contrario di quello che è stato fatto al tempo delle cosiddette “Cattedrali nel deserto”, quasi sempre organismi verticalmente integrati, autocontenuti e autoreferenziali per loro natura incapaci di attivare una qualche forma di sviluppo endogeno, che infatti non si è mai sostanzialmente realizzato.

Proprio l’efficienza dei legami di filiera costituisce uno dei principali punti di forza della manifattura italiana. Ma si tratta di un fenomeno la cui origine è stata sostanzialmente spontanea, e che si è realizzato al di fuori di qualunque disegno esplicito di politica industriale. Ciò ha comportato che una componente rilevante dell’offerta nazionale abbia dovuto trovare la propria strada “da sola”, semplicemente sfruttando i rendimenti crescenti di tipo dinamico che scaturivano dall’estendersi della divisione del lavoro sul mercato: e dunque mantenendosi nei dintorni di una specializzazione di partenza definita da competenze necessariamente dislocate in ambiti settoriali definiti. Questo più o meno negli stessi anni in cui in altre aree del mondo (massimamente nel mondo asiatico, ma in qualche modo anche negli Stati Uniti) la ricerca di rendimenti crescenti in funzione della costruzione di vantaggi comparati dinamici veniva invece affidata all’azione di politiche pubbliche deliberate orientate a un ampliamento sistematico della matrice dell’offerta.
Ma gli effetti degli shock non riguardano solo l’assottigliamento delle dimensioni della manifattura (e cioè quella parte di industria che se ne va): riguardano anche quella che resta, perché essi producono contestualmente un ampliamento della distanza tra il gruppo di testa e i follower, che possono non essere in grado di tenere il passo dell’evoluzione richiesta dal mercato, divenendo a loro volta candidati all’uscita nel medio periodo.
In entrambi i casi (uscite e aumento della distanza tra high performer e follower) l’unico strumento realmente efficiente attraverso cui accrescere la capacità di tenuta del sistema consiste nell’aumentare la capacità di competere delle imprese esistenti, ovvero la loro absorptive capacity. Detto in altri termini, nell’investire fortemente in tutte quelle imprese che non siano high performer, e farlo intanto nei luoghi e nelle industrie in cui le imprese sono già dislocate. E dunque attivando – molto più di quanto non si sia mai fatto finora – politiche di formazione mirata in ambiti strategici, individuati a partire dalle effettive esigenze delle imprese, con l’obiettivo di accrescere la capacità dell’impresa di fronteggiare volta per volta i problemi implicati dal cambiamento, che è continuo, anche attraverso la costruzione di “sponde” istituzionali adeguate.
L’investimento in capitale umano è complementare rispetto a quello in capitale fisico in particolare nel caso degli investimenti in tecnologie digitali, che richiedono sia competenze specialistiche in ambito tecnico che competenze manageriali, per gestire la maggiore complessità dei processi e creare nuove opportunità di crescita. Se non si mette in condizione di avvalersi delle tecnologie “di frontiera” il massimo numero di imprese possibile, favorendo la loro introduzione si finisce per accentuare il divario che separa chi è già in grado di acquisirle per conto suo da chi non lo è. Ma la “questione formativa” si pone al di là della stessa dimensione operativa: in un contesto dominato dall’insorgere di eventi sempre meno calcolabili (rischio non assicurabile), l’insorgere di eventi non prefigurabili ex-ante invoca un recupero forte del fattore umano nella valutazione di eventi che tendono per loro natura ad assumere l’aspetto di una serie di outlier – rendendo strutturalmente inefficace il ricorso a strumenti di previsione strettamente quantitativi.

Una grande occasione

Il Piano Next Generation eu rappresenta un’opportunità senza precedenti per realizzare, grazie al sostegno finanziario europeo, un programma massiccio di investimenti pubblici e privati che rilanci la competitività del sistema produttivo italiano nella fase di ripresa dell’economia post-pandemia e che rafforzi le fondamenta della sua sostenibilità negli anni a venire, consentendogli di intercettare le traiettorie di sviluppo intorno alle quali si vanno definendo le nuove catene del valore europee e globali. Nello schema di ripartizione dei fondi approvato lo scorso luglio dal Consiglio europeo, dei 750 miliardi di euro previsti dal Piano all’Italia verrà concessa una dotazione di circa 200 miliardi, di cui poco meno di due terzi sotto forma di prestiti e i restanti sotto forma di sovvenzioni, in gran parte da impegnare entro il prossimo biennio.
Ma il rischio che l’Italia non riesca a sfruttare pienamente questa opportunità è molto alto, stanti i cronici problemi che affliggono le Pubbliche Amministrazioni (centrali e regionali) nell’avviare e portare a termine i progetti finanziati con fondi comunitari. Per minimizzarlo, sarebbe auspicabile che gli obiettivi generali fissati nel Next Generation eu – declinati a livello italiano nel Piano nazionale di Ripresa e Resilienza – fossero perseguiti individuando pochi, grandi progetti di filiera, integrati su snodi strategici per lo sviluppo del Paese, coerenti con le altre politiche di sviluppo nazionali e comunitarie già definite o in via di definizione, e con una governance e una strumentazione di policy unitaria a livello nazionale. Il modello potrebbe essere quello degli Important Projects of Common European Interest (ipcei), orientati all’identificazione di catene del valore strategiche nell’ambito europeo, che a partire da un obiettivo di policy specifico individuano tutti gli snodi tecnologici rilevanti per il suo conseguimento e intorno ad essi costruiscono partenariati industriali in una logica di cofinanziamento pubblico-privato.

INNOVAZIONE E RESILIENZA: I PERCORSI DELL’INDUSTRIA ITALIANA NEL MONDO CHE CAMBIA

L'autore

Il Centro Studi Confindustria presieduto dal Presidente di Confindustria Carlo Bonomi e coordinato dal Direttore del CSC conduce previsioni economiche, analizza le tendenze dei sistemi industriali, prevede gli scenari geoeconomici e valuta le politiche pubbliche. Attraverso i rapporti, le note di policy e congiunturali, gli articoli per i quotidiani, le infografiche, i webinar, i lunch seminar e i working papers, il CSC diffonde le proprie analisi presso gli associati di Confindustria, i policy makers, l’accademia e l’opinione pubblica.  


Newsletter