Leadership politica e cooperazione internazionale. Le chiavi per la transizione energetica

8 dicembre 2020
Editoriale Open Society off
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L’energia è da sempre un importante fattore di crescita economica e progresso e dalla prima rivoluzione industriale è addirittura essenziale per lo sviluppo economico. Negli ultimi tempi, tuttavia, vi è stato un profondo cambiamento nella relazione tra energia e crescita. Storicamente, l’attenzione era rivolta all’esistenza di riserve energetiche sufficienti ad alimentare la crescita nel lungo periodo e la preoccupazione principale riguardava la capacità di trovare nuove fonti più efficienti e in grado di sostituirle in caso di esaurimento. Oggi invece la sostenibilità della crescita nel tempo è considerata funzione non solo della quantità di energia ma anche della sua qualità. Sono importanti disponibilità ed efficienza ma lo è anche l’impatto ambientale, in particolare le emissioni di CO2. La questione energetica non è più solo un tema industriale ed economico, ma anche sociale e politico. L’emergenza del cambiamento climatico l’ha posta al centro del dibattito sul futuro del pianeta.

Il ruolo della politica

Come è emerso chiaramente nella campagna elettorale per la corsa alla Casa Bianca, negli Stati Uniti cambiamento climatico e transizione energetica sono temi sui quali vi è una forte polarizzazione politica, non priva di componenti ideologiche. A un estremo i negazionisti del cambiamento climatico che considerano le energie rinnovabili inutili e onerose per il bilancio pubblico e dall’altra l’ala liberal del partito democratico che vorrebbe una completa transizione energetica entro il 2030, cioè in tempo brevissimi. Sarà necessaria una forte leadership da parte del Presidente Biden trovare un equilibrio tra le diverse posizioni.

Anche la politica europea è caratterizzata da una forte contrapposizione: da una parte l’obiettivo di essere il primo continente a zero emissioni entro il 2050 e dall’altra la protezione dei diversi interessi nazionali. In particolare, molti dei paesi dell’Est Europa – nelle cui economie il carbone ha ancora un ruolo centrale – sono restii, e talvolta ostili, alla transizione energetica. Il primo ministro ungherese Orbán ha sempre avuto un atteggiamento ambiguo sui temi della green economy. Bulgaria, Romania e Repubblica Ceca hanno opposto una notevole resistenza prima di aderire Green Deal. La Polonia, il cui 70% di energia prodotta deriva dal carbone, si è addirittura rifiutata di sottoscriverlo.

Anche in campo energetico, come in altri ambiti, la Commissione europea ha l’arduo compito di trovare un compromesso politico tra una strategia energetica comune e condivisa e la tutela delle esigenze di crescita dei singoli paesi membri.

La cooperazione internazionale

Secondo l’ultimo Emission Gas Report dell’ONU «per raggiungere gli obiettivi di Parigi la riduzione di emissioni nel prossimo decennio dovrà essere del 7,6%». Uno studio del Fondo Monetario Internazionale evidenzia come dal 2015 a oggi, Unione Europea e Stati Uniti abbiano diminuito le emissioni di CO2 rispettivamente di 5,1% e 2,9%, mentre Cina e India le abbiano addirittura aumentate di 4,9% e 1,5%.

Da questi dati si evince che per raggiungere gli obiettivi prestabiliti siano necessari maggiori “sacrifici” ed è inoltre evidente quanto sia difficile trovare un consenso internazionale sulla ripartizione degli stessi. La pandemia peraltro accentua il problema. Innanzitutto perché la recessione che ne segue può cambiare le priorità della politica e sottrarre risorse all’agenda “verde”. Ma anche perché il crollo del prezzo del petrolio rende più difficile e antieconomica la transizione energetica.

Su un tema così globale è quindi imprescindibile che aumenti la cooperazione internazionale e si arrivi a scelte condivise. Per quanto difficile, gestire al meglio la tempistica della transizione e minimizzare il grado d’incertezza è nell’interesse di tutti i paesi. Infatti, cambiamento climatico e surriscaldamento globale accrescono la volatilità dei prezzi agricoli (per le sempre più frequenti e improvvise siccità, inondazioni o gelate), aumentano i rischi e i costi delle compagnie assicurative (per i maggiori danni causati da uragani e tempeste), mettono a rischio interi settori dell’economia, generano maggiore instabilità macroeconomica rendendo più complessa e meno efficace la politica economica di governi e banche centrali.

 

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Leadership politica e cooperazione internazionale sono le due caratteristiche imprescindibili per poter fare concreti passi avanti nella lotta al cambiamento climatico. La decisione di Joe Biden di inserire per la prima volta nel Consiglio di Sicurezza Nazionale una figura dedicata esplicitamente alla crisi climatica, e il fatto che questo ruolo sia stato affidato a un politico di grande esperienza e statura internazionale quale John Kerry, sono segnali importanti che vanno nella giusta direzione. L’Unione Europea potrebbe seguire questo esempio, coinvolgendo sul tema personalità politiche di analoga autorevolezza. Ma la politica è spesso mossa dal consenso e in questo senso l’emergenza della pandemia di Covid-19, seppur drammatica dal punto di vista sanitario ed economico, ha reso evidente lo stretto collegamento tra cambiamento climatico e diffusione di virus animali nell’uomo. E ciò potrebbe contribuire in modo decisivo ad aumentare e diffondere la consapevolezza dell’importanza di preservare l’ambiente.

 

Questo articolo è stato pubblicato su AffarInternazionali il 4 dicembre 2020. Riprodotto per gentile concessione

Gli autori

Marco Magnani insegna International Economics e Monetary & Financial Economics presso la Luiss, Senior Research Fellow Harvard Kennedy School. È autore, fra gli altri, di L’onda perfetta. Cavalcare il cambiamento senza esserne travolti (Luiss University Press, 2020) e Fatti non foste a viver come robot (Utet, 202).


Matteo Toppeta è laureando in International Relations nel corso di Global Studies presso la Luiss Guido Carli di Roma.


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