Forza e debolezza dell’Unione europea

16 dicembre 2020
Editoriale Europe | Politica
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Fuori dall’Unione Europea

Nella conferenza stampa del 10 dicembre, Christine Lagarde (presidente della Banca centrale europea) ha chiarito come stanno le cose. Nell’Eurozona, si prevede un calo del Pil del 7,3 per cento nel 2020, con una ripresa stimata del 3,9 per cento nel 2021, del 4,2 per cento nel 2022 e del 2,1 per cento nel 2023. Nello stesso giorno, Angela Merkel, parlando al Bundestag (la camera bassa del legislativo tedesco), ha detto che i primi mesi dell’anno prossimo potrebbero registrare un peggioramento rispetto agli ultimi mesi del 2020. In un contesto così minaccioso, le Conclusioni del Consiglio europeo del 10-11 dicembre dimostrano come l’Unione europea (Ue) disponga della forza per affrontare una crisi che nessun Paese potrebbe affrontare da solo. Chi pensa che fuori dall’Ue si starebbe meglio, dovrebbe contare fino a dieci prima di parlare. Quelle Conclusioni, tuttavia, hanno portato alla luce anche la debolezza dell’Ue. Vale la pena di discutere i due aspetti partitamente.

Punti di forza

Cominciamo dalla forza. Nella riunione dell’11-12 dicembre, i 27 capi di governo degli stati membri dell’Ue sono riusciti a raggiungere un accordo cruciale per avviare la risposta agli effetti devastanti della pandemia. Grazie alla mediazione della cancelliera Angela Merkel (capo del governo del Paese, la Germania, che detiene la presidenza semestrale del Consiglio dell’Ue fino al 31 dicembre prossimo), i premier della Polonia (Mateusz Morawiecki) e dell’Ungheria (Viktor Orban) hanno rinunciato ad opporre il loro veto all’approvazione della decisione sulle risorse proprie che consente di alzare il bilancio europeo dall’1,2 per cento al 2 per cento del Pil europeo. Quella decisione, che deve essere presa all’unanimità (degli stati membri e dei loro parlamenti nazionali), consente di acquisire le risorse necessarie per finanziare il nuovo programma post-pandemico di Next Generation EU (NG-EU) di 750 miliardi, programma a sua volta collegato al Quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027 consistente in 1.074,3 miliardi. Senza più il veto al bilancio, gli stati membri possono accelerare i processi decisionali interni per definire la strategia e i progetti dei Piani nazionali di ripresa e resilienza con cui utilizzare le risorse ad essi assegnate. Una grande notizia per l’Italia, il Paese più colpito dalla pandemia ma anche quello che disporrà dei finanziamenti più consistenti provenienti da NG-EU, cui andranno poi aggiunti i fondi derivanti dal QFP, oltre quelli provenienti dai programmi speciali (come il Sostegno temporaneo per contrastare la disoccupazione, SURE, i finanziamenti della Banca europea degli Investimenti, per non parlare del MES sanitario). Si tratta di un volume di risorse senza precedenti, da investire a favore della prossima generazione di italiani.

Aspetti critici

Vediamo ora la debolezza. Morawiecki e Orban avevano usato la minaccia di veto al bilancio europeo per bloccare in realtà la proposta di Regolamento, concordata a maggioranza tra il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo, che vincola l’utilizzo dei fondi europei al rispetto (da parte dei Paesi beneficiari) dei principi dello stato diritto. Un vincolo ovvio, dato che l’Ue è una comunità di diritto. Non così ovvio per i premier polacco e ungherese che, infatti, guidano governi impegnati a trasformare i loro Paesi in “democrazie illiberali”. Così, per convincere i due premier a rinunciare al loro veto, il Consiglio europeo ha inserito, nelle Conclusioni, una dichiarazione interpretativa della proposta di Regolamento sullo stato di diritto che va incontro alle loro richieste (tant’è che entrambi hanno subito twittato “Vittoria!”). La dichiarazione afferma (Conclusioni, I.2) che il Regolamento sullo stato di diritto “deve essere applicato…nel pieno rispetto… delle identità nazionali degli Stati Membri inerenti alle loro fondamentali strutture politiche e costituzionali” (un modo per riconoscere l’autoritarismo di quei Paesi come loro specificità costituzionale); oppure che il Regolamento sullo stato di diritto (Conclusioni I.2c) non potrà essere messo in pratica “fino a quando non sarà stato emesso un giudizio da parte della Corte di giustizia europea” (un modo per non disturbare Orban almeno fino alle elezioni ungheresi del 2022). Tale compito di interpretazione di atti legislativi (come il Regolamento sullo stato di diritto), assunto dal Consiglio europeo, è però estraneo al mandato di quest’ultimo. Secondo l’Art. 15.1 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), “il Consiglio europeo dà all’Unione gli impulsi necessari al suo sviluppo e ne definisce gli orientamenti e le priorità politiche generali. Non esercita funzioni legislative”. Le funzioni legislative sono infatti competenza del Consiglio dei ministri e del Parlamento europeo, che votano a maggioranza sulle proposte (Regolamenti e Direttive) della Commissione. Contro gli stessi Trattati, dunque, il Consiglio europeo è diventato molto più che l’esecutivo collegiale dell’Ue, entrando nel funzionamento delle altre istituzioni e stabilendo come esse debbano interpretare il proprio ruolo. Nella riunione dell’altro ieri, si è assunto addirittura un compito che spetterebbero alla Corte europea di giustizia, quello di interpretare un comportamento nazionale sulla base di una teoria costituzionale. L’esito è un Consiglio europeo che agisce al di fuori di effettivi ed efficaci “checks and balances” (a chi risponde la collegialità dei capi di governo per le sue decisioni con implicazioni legislative e giudiziarie?) e che per di più promuove (per dirla con Jean-Guy Giraud) la logica propria dell’organizzazione internazionale all’interno dell’Ue (interpretando come deliberazione all’unanimità l’Art. 15.4 del TUE che prevede genericamente che esso “si pronunci per consenso”).

Per concludere

Insomma, di fronte alla sfida della pandemia, l’Ue ha dimostrato di essere viva e vegeta (ne prendano nota i sovranisti). Il Consiglio europeo ha trovato l’accordo per far partire i programmi ordinari e straordinari con cui ricostruire le nostre economie e investire a favore delle nuove generazioni. Quell’accordo, però, è stato conseguito rinviando la risposta alla domanda che insegue da tempo l’Ue, ovvero (per dirla con Jurgen Habermas) “se è possibile avere regimi illiberali all’interno di un’unione che vuole essere liberale”. Fino a quando possiamo rinviare tale risposta?

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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