“Sul debito pubblico oggi si può essere eretici, a patto di essere serissimi su investimenti e crescita”. Parla Alessandro Fugnoli
17 dicembre 2020
Dopo la lunga crisi economico-finanziaria iniziata nel 2008 negli Stati Uniti, e poi propagatasi in Europa e nel resto del mondo, in molti dissero che la priorità della nostra generazione sarebbe stata quella di smaltire la montagna di debito accumulato in quella fase difficile. Poi però, in questo 2020, col pianeta investito dalla pandemia da Covid-19, abbiamo scoperto che ulteriore debito non solo si può fare, ma a tratti si deve fare. Com’è possibile? Lo abbiamo chiesto ad Alessandro Fugnoli, investment strategist milanese per il gruppo del risparmio gestito Kairos, autore della seguitissima newsletter di finanza “Il rosso e il nero”.
“Nello scorso decennio abbiamo assistito a uno spostamento della massa debitoria mondiale dal settore pubblico a quello privato – esordisce Fugnoli parlando a Luiss Open – E all’interno del settore pubblico, lo stesso debito si è poi spostato progressivamente verso le Banche centrali. Il debito, insomma, è finito in mani relativamente più forti. Oggi circa un quarto del debito pubblico mondiale è nei bilanci delle Banche centrali. La risposta alla pandemia, sia per gli ammortizzatori sociali, sia per le nuove spese decise per arginare la crisi, porterà il rapporto debito/Pil del mondo al 365% alla fine del 2020. In un solo anno, 35 punti di debito/Pil in più, ai quali – ricordiamolo – ha contribuito anche il settore privato, per esempio in Canada e Cina”. Il debito privato, prosegue il ragionamento, oggi è potenzialmente più destabilizzante per le nostre economie: “Se il debito privato aumenta troppo, aumentano i default di imprese e operatori economici – spiega Fugnoli – E i default dei privati si riflettono nei bilanci delle banche, creando problemi a catena, un po’ come accadde negli anni Trenta dello scorso secolo”.
Così la Cina disinnesca gli eccessi di debito privato
Storici dell’economia come Niall Ferguson dicono che il debito privato costituirà una sfida innanzitutto per il colosso cinese: “La Cina, negli ultimi quindici anni, è stata spesso citata come esempio di economia che ‘compra’ col debito la propria crescita. Ma finora il suo debito privato è stato tutto assorbibile all’interno del Paese. La tesi di Michael Pettis, in estrema sintesi, è la seguente: la Cina alimenta il suo sviluppo anche oltre il tasso di crescita naturale grazie al fatto che lo Stato chiede alle banche del Paese di erogare più credito di quanto erogherebbero. Di conseguenza assistiamo a un’allocazione subottimale del credito, a un’espansione dei bad loans. Tuttavia il governo, a differenza di quanto accade in Occidente, crea dei veicoli finanziari che acquistano questi bad loans dalle banche, come per nazionalizzare le perdite. Ecco perché il crash che qualcuno si attendeva è rimandato”.
Debito e moneta ormai si confondono. Uno studio di Furman e Summers
Più in generale, Fugnoli osserva come nel dibattito tra economisti e addetti ai lavori si stia facendo strada un certo “revisionismo” sul tema del debito: “Con i tassi che tendono allo zero o addirittura negativi, debito e moneta cominciano a confondersi fra loro. Dal punto di vista degli investitori, in alcuni casi detenere moneta invece di titoli di debito pubblico diventa addirittura conveniente. Dal punto di vista dei governi, i disavanzi pubblici oggi sono di fatto monetizzati. Gli acquisti di titoli di debito da parte delle Banche centrali, infatti, corrispondono grossomodo ai disavanzi dei governi, seppure ciò non avvenga in modo automatico”. Fino a quando si potrà continuare così? “Al momento si dà per scontato che la monetizzazione del debito pubblico continuerà per i prossimi anni, come è stato in Giappone negli ultimi vent’anni. Se così fosse, il debito pubblico non sarà necessariamente un onere troppo gravoso per le future generazioni”. Un’affermazione che sembra sfidare qualche decennio di manuali di economia e anche un po’ del senso comune: alla fine, qualcuno dovrà pur pagare il conto, o no? “Che il debito non costituirà un onere troppo gravoso per le future generazioni è abbastanza sconvolgente per chi utilizza un paradigma interpretativo di qualche anno fa. Faccio un altro esempio per spiegarmi meglio. Nel 2011, nell’Italia del Governo Monti, l’obiettivo dell’esecutivo fu quello di ridurre il disavanzo delle partite correnti e il disavanzo pubblico. Il primo disavanzo fu effettivamente ridimensionato, ma l’indebitamento pubblico è aumentato a causa della contrazione del Pil. Dieci anni dopo, economisti americani come Jason Furman e Larry Summers sostengono che in una situazione come quella odierna, con i tassi a zero, far aumentare l’indebitamento pubblico può generare crescita a sufficienza per ridurre il rapporto debito pubblico/Pil nel medio termine”. Sta dicendo forse che la credibilità degli Stati agli occhi dei mercati, che fino a qualche anno fa valutavamo anche a partire dalla capacità di ridurre il proprio indebitamento, oggi invece aumenterebbe con l’aumentare dell’indebitamento? “A spaventare i mercati, qualche anno fa, era il rischio default degli Stati. Oggi però i mercati sono un braccio esecutivo delle politiche monetarie espansive delle Banche centrali. I temuti bond vigilantes sono in sonno. I mercati però valutano ovviamente il tipo di investimenti, anche pubblici, che ciascuno Stato mette in campo. Se i soldi a disposizione si spendono in maniera subottimale – per esempio sperperandoli in bonus vari – o in maniera intelligente, questo lo si vedrà riflesso relativamente presto nei tassi di crescita dei diversi Paesi”.
Dopo il divorzio negli anni 80, Tesori e Banche centrali tornano all’altare?
Quello che descrive Fugnoli assomiglia nientemeno che a un cambio di paradigma. “Può apparire sconvolgente – insiste lui – ma la storia insegna che in periodi di deflazione strutturale si cercano quasi disperatamente ricette reflazionistiche, anche piuttosto ardite. Dopo la stagflazione degli anni 70 del XX secolo, all’opposto, si cercavano ricette che diminuissero l’inflazione. Andava in quel senso, per esempio, il divorzio tra Tesoro e Banca centrale, deciso in Italia nel 1981. Oggi, con la monetizzazione di fatto del debito, è come se Tesoro e Banca centrale stessero tentando di tornare all’altare…”. Dopodiché l’analista di Kairos precisa che non tutti i Paesi sono nelle stesse condizioni: “Il ragionamento fatto finora vale perlomeno in Paesi che hanno la sovranità monetaria e con un debito pubblico emesso nella propria valuta, come Stati Uniti e Cina”. Non ha citato l’Italia e l’Eurozona. “Qui la situazione è un po’ più complicata, come noto. Per l’Italia, l’euro è una valuta interna o estera? Al momento assomiglia a una valuta interna, visto che la Banca centrale europea, perlomeno dai tempi di Mario Draghi, ha fatto capire di essere pronta a fare whatever it takes per sostenere tutti i Paesi del club. Risultato: i rendimenti sono calati e oggi la yield curve italiana si muove in larga parte in terreno negativo, nonostante un rapporto debito pubblico/Pil superiore a 10 anni fa e che a fine anno potrebbe sfiorare il 160%. Ma attenzione. Se tutto andrà bene, se cioè la ripresa si rafforzerà, già tra un anno di questi tempi la situazione potrà essere ben diversa. La Germania potrebbe tornare a proclamare il debito pubblico come un pericolo. Quindi da Bruxelles potrebbero tornare a farsi pressanti gli inviti al risanamento dei conti via tagli al bilancio pubblico. E a Francoforte si potrebbero muovere di conseguenza. A quel punto l’euro, per l’Italia, tornerebbe ad assomigliare a una valuta estera. L’Italia è estremamente esposta a cambiamenti di questo tipo”. Ecco uno dei motivi, insieme per esempio “all’evoluzione demografica mondiale che potrà cambiare l’equilibrio tra risparmio e investimenti”, per cui il ragionamento di Fugnoli non vuole assomigliare a un “liberi tutti” per l’utilizzo delle risorse del bilancio pubblico: “Viviamo in una fase particolare, in cui effettivamente possono valere politiche finora considerate eretiche – conclude l’analista milanese – Ma anche nell’essere eretici, ci vuole un po’ di misura e di consapevolezza che la situazione attuale non durerà all’infinito”.
Alessandro Fugnoli è uno dei più seguiti investment strategist italiani.
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