L’immobilismo di un sistema

5 gennaio 2021
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Oltre le Alpi e l’Atlantico, l’anno del Covid-19 ha portato almeno due novità politiche di rilievo: l’ascesa di Biden alla Casa Bianca e il lancio di un ambizioso piano europeo di ricostruzione post-pandemica. Poiché da sempre, e ancor di più nell’ultimo decennio, l’Italia è un Paese condizionato dagli equilibri continentali e atlantici, nel 2021 che si apre queste novità peseranno anche a casa nostra.

Sarebbe poco saggio illudersi che i «vincoli esterni» bastino di per sé a sciogliere i molti e intricati nodi politici e istituzionali sparsi in giro per la Penisola, però. Sia perché gli equilibri, probabilmente a Washington e certamente a Bruxelles, resteranno alquanto fragili e precari. Sia perché l’Italia è parte integrante del gioco europeo, quindi il suo comportamento concorrerà a determinare le decisioni dei partner continentali e dell’Unione. E sia, più in generale, perché molti di quei nodi sono di fattura domestica, e soltanto noi possiamo scioglierli.

Se torniamo al di qua delle Alpi e dell’Atlantico, allora, qual è il bilancio politico dell’anno del Covid-19? L’emergenza ci ha davvero resi politicamente migliori, ci lascia in eredità per il 2021 una vita pubblica meno caotica e autoreferenziale, più efficiente, ordinata, democratica? Per dare alla domanda una risposta positiva bisognerebbe attingere a tutto l’ottimismo che ha generato in questi giorni l’epifania del vaccino. La verità è che la pandemia, se da un lato ha congelato le dinamiche politiche e inchiodato il governo Conte al suo posto, dall’altro ha evidenziato in maniera particolarmente impietosa i limiti del sistema politico e istituzionale italiano.

La storia di quei limiti è ben nota: se massimizzare al contempo l’efficienza decisionale e la rappresentatività è il problema delle democrazie moderne, nell’ultimo decennio l’Italia è riuscita nel miracolo esattamente opposto di minimizzare entrambi i parametri. Il referendum del 2016 ha con ogni probabilità sbarrato in via definitiva la strada di una riforma organica della costituzione. Nel frattempo è arrivato a compimento il processo di dissoluzione dei partiti che aveva preso avvio nei primi anni Novanta. E il più dissolto di tutti, per paradosso, è l’ultimo nato: il partito nuovo che ambiva a rovesciare e ricostruire tutto. Il bipolarismo, che dopo Tangentopoli aveva almeno consentito agli italiani, per la prima volta nella loro storia, di scegliersi un governo nelle urne, non c’è più dal 2013. Più o meno in quello stesso torno di tempo si è aperta infine fra l’elettorato italiano e l’Europa una frattura profonda che a dieci anni di distanza non sembra ancora essersi richiusa – e vedremo se saprà richiuderla il piano europeo di ricostruzione.

La pandemia non ha soltanto messo ulteriormente in rilievo i difetti macroscopici del sistema istituzionale italiano ma, sotto la crosta dell’immobilità politica generata dall’emergenza, potrebbe perfino averli aggravati. Perfido da tanti punti di vista, il Covid-19 lo è pure da quello politico: non è un virus che mette ordine, spinge alla concordia, detta strategie chiare e univoche ma, al contrario, è caotico e divisivo. È pericoloso a sufficienza da richiedere di non esser trattato come un’influenza, ma non lo è abbastanza da rendere incontrovertibili le misure necessarie a difendersene. Quelle misure generano allora reazioni di scetticismo e sospetto che possono arrivare fino alla negazione della pandemia, ma che sono in realtà diffuse in ogni loro gradazione.

Poi – come avrebbe fatto qualsiasi altro virus ignoto, presumo – divide gli esperti, seminando nell’opinione pubblica dubbi profondi sul valore delle competenze e degli scienziati. Diffidenze che saranno forse attenuate, ma difficilmente dissipate del tutto, se la scienza con le sue sacrosante incertezze teoriche saprà tradursi in una tecnologia efficace sul piano pratico. Detto altrimenti: quando i vaccini avranno dimostrato di funzionare. Infine, Covid-19 non colpisce tutti allo stesso modo: separa i giovani dagli anziani sul terreno sanitario, i lavoratori autonomi dai dipendenti pubblici su quello socio-economico, e il nord dal sud su entrambi i terreni. Soprattutto queste due ultime fratture sono probabilmente destinate a pesare molto nei prossimi tempi.

Il 2021 sarà l’anno in cui la politica uscirà dallo stato emergenziale e proverà a riprendersi i suoi spazi: se ne vedono le avvisaglie già da diverse settimane. È anche l’anno in cui sarà chiamata al compito titanico di dare risposta alla catastrofe economica e sociale generata dalla pandemia. E dovrà farlo portandosi sulle spalle le sue enormi debolezze storiche e le fratture aggiuntive generate dal Covid-19. Le vie più ambiziose verso il rinnovamento della nostra vita pubblica – tanto l’ipotesi di un governo di larga convergenza quanto il voto anticipato – restano accidentate e irte di controindicazioni. Ma è pure lecito dubitare che il «rimpasto» di cui si discute da qualche tempo, o anche un governo nuovo ma con la stessa maggioranza dell’attuale, rappresentino risposte adeguate a una sfida epocale.

Questo articolo è precedentemente apparso su La Stampa. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Giovanni Orsina è il Direttore della Luiss School of Government


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