L’accordo con la Cina e le omissioni dell’Europa
7 gennaio 2021
Mentre ci lambicchiamo, in Italia, per capire se ci sarà la crisi o il rimpasto del governo (cosa importante, per carità), fuori d’Italia avvengono processi che condizioneranno il futuro nostro e dell’Europa. Nonostante quest’anno abbiamo la presidenza del G-20, di ciò che succede fuori di casa non si discute. In particolare, non si discute di ciò che sta facendo la Cina per ridisegnare il sistema internazionale. Eppure, ciò avrà conseguenze sulle nostre scelte future, nazionali ed europee. Perché?
Il 30 dicembre, l’Ue e la Cina hanno concordato un accordo bilaterale (Comprehensive Agreement on Investment), su cui lavoravano da tempo. Con tale accordo, viene garantito un livello “senza precedenti” di accesso degli investitori europei nel mercato cinese, viene consentito alle imprese europee di acquisire imprese cinesi o di crearne di nuove in settori strategici (come le telecomunicazioni o le automobili elettriche ed ibride), viene riequilibrato il “level playing field” tra imprese cinesi ed europee. Inoltre, la Cina si impegna a convergere verso la regolamentazione europea per quanto riguarda le imprese statali e la trasparenza dei sussidi alle imprese non-statali. Un accordo importante per l’Ue, in quanto aiuterà a controbilanciare gli effetti negativi della pandemia nel nostro continente. Ma soprattutto un risultato importante per la Cina. Questo accordo bilaterale segue di poco un altro accordo di libero scambio (Regional Comprehensive Economic Partnership), firmato il 15 novembre scorso tra i Paesi dell’ASEAN con l’Australia, il Giappone, la Corea del Sud, la Nuova Zelanda e (appunto) la Cina. Attraverso l’attrazione esercitata dal suo enorme mercato, la Cina sta conducendo una politica internazionale basata su accordi bilaterali e regionali che, non solo massimizzano il suo potere negoziale, ma dividono i suoi rivali. Attraverso quegli accordi, la Cina mira ad isolare l’America, escludendola da blocchi commerciali in cui essa è l’unica grande potenza, e a separarla dall’Europa. Il fine della politica cinese è di svuotare il sistema multilaterale globale rendendolo obsoleto. La leadership cinese persegue un mondo organizzato intorno ad una pluralità di distinti accordi di libero scambio, senza più un’autorità multilaterale globale investita del potere di regolare (con il diritto) le relazioni tra gli stati (come l’Organizzazione mondiale dei commerci).
Se così è, l’accordo con la Cina solleva problemi, non solamente perché essa si rifiuta di garantire l’abolizione del lavoro forzato al suo interno, ma soprattutto perché Bruxelles non sembra essere consapevole delle conseguenze strategiche dell’accordo. Dopo tutto, non mancano, nelle opinioni pubbliche europee, interpretazioni superficiali del modello politico cinese. Secondo le quali, ad esempio, la Cina maltratta la minoranza degli Uiguri “esattamente” come l’America maltratta la minoranza afroamericana; la Cina calpesta i diritti dei cittadini di Hong-Kong “proprio” come l’America calpesta quelli dei chicanos. E poi, qual è la differenza tra l’autoritarismo di Xi Jinping (che si è fatto nominare a vita segretario del Partito comunista, oltre che presidente della Repubblica) e quello di Donald Trump (che ancora oggi si rifiuta di lasciare la Casa Bianca)? Di qui l’idea che l’Ue debba agire in modo equidistante dalla Cina e dall’America, con propri interessi e una propria visione da perseguire. Se questa idea si affermasse, le conseguenze sarebbero drammatiche per l’Europa. La Cina non è una potenza speculare all’America. E’ una potenza autoritaria, in cui il Partito comunista controlla verticalmente il funzionamento dello stato. Anche se il suo regime interno si basa su una doppia struttura, quella del partito e quella dello stato, è la prima che determina il funzionamento della seconda. Il principale organismo statale (il Congresso nazionale del popolo, 3.000 delegati in carica per 5 anni) è costituito per il 70 per cento di membri del Partito comunista. Il Consiglio di stato (che è il centro dell’attività governativa statale) è costituito di membri nominati dal primo ministro su indicazione del Comitato centrale del partito. All’interno di quest’ultimo, il vero centro del potere è rappresentato dal suo Politburo (24 membri) e in particolare dal Comitato permanente del Politburo (6 membri oltre il segretario generale del Partito, l’autorità indiscussa dell’intero sistema decisionale). Gli stessi membri del partito (88 milioni) possono essere consultati, ma non hanno alcun potere decisionale. Il potere decisionale va dall’alto verso il basso (non già viceversa), né vi sono condizionamenti legali su chi lo esercita. Anche se è stato introdotto recentemente un sistema giudiziario (con, all’apice, la Corte suprema del popolo e la Procura suprema del popolo) tale sistema è esclusivamente responsabile verso il Congresso nazionale del popolo, ovvero verso il Partito comunista che ne nomina i membri e i presidenti. L’America avrà tanti e insopportabili difetti, tuttavia questi ultimi possono essere corretti attraverso libere e regolari elezioni, sentenze di organismi giudiziari indipendenti, campagne di stampa senza censura. Nulla di tutto ciò è rinvenibile nel sistema cinese. Ciò non significa che con la Cina non si debbano fare accordi economici e avviare collaborazioni accademiche. Anzi. Significa però che gli interessi immediati di imprese e università debbono essere ricondotti ad una strategia europea che deve avere come baricentro l’asse Washington D.C. – Bruxelles. La necessaria autonomia strategica dell’Europa deve servire a rafforzare l’alleanza delle democrazie atlantiche, non già ad indebolirla.
In conclusione, oltre che discutere di cosa farà il leader A o il leader B nei prossimi giorni, l’élite politica italiana potrebbe ricordare alle autorità di Bruxelles che non è nostro interesse assecondare la strategia cinese finalizzata a segmentare il sistema internazionale. Piuttosto, è nostro interesse ricostruire la leadership democratica di quel sistema, sia sul piano militare (riequilibrando la NATO) che sul piano economico (riprendendo il progetto del 2013 di una Transatlantic Trade and Investment Partnership tra America ed Europa). L’Europa può prosperare all’interno di un rinnovato multilateralismo, è destinata invece a deperire in un modo di grandi potenze.
Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.
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