Democrazia alla prova: gli USA e Trump

10 gennaio 2021
Editoriale Politica
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Nell’articolo pubblicato lo scorso 4 gennaio sulla democrazia post-pandemica, Leonardo Morlino analizza alcune delle variabili che stanno trasformando le democrazie liberali. Da un mondo multipolare alla crescita delle diseguaglianze fino al ruolo del capitalismo digitale, l’analisi di Morlino disegna uno scenario coerente e assolutamente condivisibile. Morlino non poteva, tuttavia, considerare (perché non era ancora avvenuto) un episodio comparabile per la sua gravità simbolica solo all’attentato alle torri gemelle: l’attacco al Congresso degli Stati Uniti. Ci sono, ovviamente, episodi simili anche in Europa: alcuni di noi hanno negli occhi l’attacco di Tejero alle Cortes in Spagna, il tentato golpe del 1981 sventato dalla fermezza del Re. In quel caso, tuttavia, l’autore principale dell’irruzione armata nel Parlamento era un militare golpista nostalgico del franchismo e la più alta carica istituzionale (il Re) si pose come baluardo della democrazia. Nell’attacco a Capitol Hill del 6 gennaio, l’ispiratore simbolico è stato invece il Presidente in carica: siamo cioè in presenza del sovversivismo della più alta carica politica contro le istituzioni democratiche del proprio paese e – peggio – contro la libera scelta delle elettrici e degli elettori americani.

Il tentativo da parte di commentatori e politici italiani di attenuare la gravità di quanto accaduto è semplicemente ridicolo. L’attacco al cuore della democrazia americana, nel momento in cui le istituzioni certificano la vittoria di Joe Biden, è un fatto gravissimo e inedito; reso ancora più drammatico dai discorsi incendiari di Donald Trump e dall’uso violento che i suoi sostenitori hanno fatto sia della piazza sia delle piazze virtuali rappresentate dai social media. La decisione dei social media – anch’essa inedita – di bloccare gli account del Presidente (al momento in carica) degli Stati Uniti rivela plasticamente un conflitto inatteso: quello fra i colossi del potere digitale e la più alta carica politica americana, in cui i primi si pongono a baluardo della democrazia e rigettano la pericolosità dei discorsi d’odio dell’inquilino della Casa Bianca. Dopo, tuttavia, che quegli stessi social avevano rappresentato il terreno privilegiato per la diffusione di fake news e per l’adozione di strategie di manipolazione dell’opinione pubblica attraverso raffinati meccanismi di news engagement.

Ma il declino della democrazia statunitense inizia molto prima del 6 gennaio 2021 e affonda le sue radici nelle retoriche antidemocratiche di una parte consistente del GOP, in fenomeni come il Tea Party e, solo successivamente, nel mix di complottismo, sovranismo, nativismo, razzismo e neonazismo che ha affiancato in rete l’avanzata di Donald Trump. Ha ragione Joe Biden ad accusare Trump di avere attaccato la democrazia.

In realtà, Trump ha fatto anche di più: ha minato la credibilità e l’autorevolezza (o quel che ne restava) di un modello di democrazia, per la verità già auto-delegittimato dalle molte e discutibili operazioni di “esportazione” di quella stessa presunta democrazia. Il modello della democrazia americana (o, appunto, quel che ne restava) si è frantumato in diretta televisiva. E poco importa se poi il Congresso ha (per fortuna) ripreso i suoi lavori e ha sancito l’elezione di Joe Biden: il danno simbolico al valore della democrazia è stato enorme.

In questo scenario sono passate sotto silenzio le accorate parole di Biden – solo qualche giorno prima – sulla “vergogna” di un modello economico che non riesce a fronteggiare la pandemia, lasciando morire in abbandono i più anziani e i più poveri. E sono passate quasi sotto silenzio le elezioni in Georgia che hanno visto la storica vittoria del reverendo Warnock, preparata da una straordinaria mobilitazione sociale dell’elettorato afroamericano.

Le immagini della (fin troppo facile) irruzione dei miliziani trumpiani nel tempio della democrazia americana restano nella memoria collettiva come una ferita non facilmente rimarginabile del tessuto democratico. Eppure, quel tessuto esiste ed è grazie a esso che Joe Biden potrà guidare la Casa Bianca. Ma si tratta di un tessuto diverso da quello che è stato finora raccontato: è composto dai volti multicolori delle marce di Black Lives Matter, dai movimenti delle donne che hanno saputo cambiare l’agenda della politica, dalle ragazze e dai ragazzi dei Democratic Socialist of America che hanno sostenuto e accompagnato l’avanzata dei Democrats, dalle mobilitazioni sociali, disseminate in tutti gli stati, che sempre più spesso hanno fatto esplicito riferimento alla prospettiva socialista. Sembra quasi che quel che resta della democrazia che un tempo si chiamava “liberale”, possa essere salvato solo da quel richiamo al socialismo. Lo stesso che anima le tante esperienze di quel tessuto democratico che un gruppo di miliziani ha cercato di lacerare con una violenza tanto stupida quanto ridicola. Ma non per questo meno pericolosa.

 

 

 

L'autore

Michele Sorice è ordinario di Sociologia della comunicazione al Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss, dove dirige il Centre for Conflict and Participation Studies (CCPS).


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