Migranti: la Corte di giustizia condanna l’Ungheria
11 gennaio 2021
La legge ungherese XX del 2017
Con la sentenza Commissione c. Ungheria del 17 dicembre scorso, la Corte di giustizia è tornata ad occuparsi della gestione da parte degli Stati membri dei flussi migratori. Nel caso di specie, viene in rilievo la legge ungherese XX del 2017, che ha ampliato i casi in cui il governo può dichiarare una «situazione di crisi causata da un’immigrazione di massa», ai sensi della legge sul diritto di asilo, consentendo di derogare alle disposizioni generali in una situazione del genere.
L’approvazione di tale legge ha scatenato fin da subito forti perplessità tanto da portare la Commissione europea a muovere formalmente una serie di censure nei riguardi dello Stato ungherese per aver limitato l’accesso alla procedura di protezione internazionale, aver istituito un sistema di trattenimento coatto dei richiedenti e previsto la riconduzione forzata, su una striscia di terra frontaliera, di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno era irregolare, violando così le garanzie sostanziali e procedurali previste dalle Direttive «procedure», «accoglienza» e «rimpatrio».
L’accesso alla procedura di protezione internazionale
Con tale pronuncia, la Corte di giustizia afferma, in primo luogo, che l’Ungheria, non consentendo ai cittadini dei Paesi terzi di accedere, a partire dalla frontiera serbo-ungherese, alla procedura di protezione internazionale, ha di fatto impedito il ricorso alla procedura stessa. La Corte sottolinea, peraltro, che la vicenda in esame risulta il prodotto di una prassi amministrativa «costante e generalizzata», volta a limitare l’accesso alle zone di transito di Röszke e di Tompa «in modo sistematico e talmente drastico che i cittadini di paesi terzi o gli apolidi che … desideravano accedere, in Ungheria, alla procedura di protezione internazionale si sono trovati di fronte alla quasi impossibilità pratica di presentare una domanda di protezione internazionale in Ungheria».
Nella fattispecie, il trattenimento di un richiedente protezione internazionale è da intendersi come una misura coercitiva che lo priva della libertà di circolazione e lo isola dal resto della popolazione «imponendogli di soggiornare in modo permanente in un perimetro circoscritto e ristretto».
Difatti, a giudizio della Corte, se è vero che il soggetto richiedente protezione internazionale può, in ossequio a quanto stabilito dalla direttiva «accoglienza», essere trattenuto nelle immediate vicinanze delle frontiere di uno Stato membro, per consentirne l’identificazione o per determinare gli elementi su cui si basa la domanda di protezione internazionale, d’altra parte, un simile obiettivo non potrebbe giustificare l’adozione di misure di trattenimento senza che le autorità nazionali abbiano preventivamente verificato, caso per caso, se queste ultime siano proporzionate ai fini perseguiti.
Il diritto europeo osta ad una normativa nazionale che consente il trattenimento in modo automatico di un richiedente protezione internazionale, che necessita di garanzie procedurali particolari, e senza che sia stato previamente verificato se tale trattenimento lo privi del «sostegno adeguato» cui ha diritto. E ciò, a maggior ragione, nel caso in cui un simile regime di trattenimento venga applicato in modo generalizzato a tutti i richiedenti che necessitano di garanzie procedurali particolari, ad eccezione dei minori non accompagnati di età inferiore a 14 anni e dei richiedenti che già dispongono di un titolo di soggiorno nel territorio ungherese o che sono oggetto di un’altra misura di trattenimento o di restrizione della loro libertà, senza verificare la compatibilità del trattenimento di tali soggetti con le loro esigenze specifiche.
La riconduzione forzata
Altra obiezione mossa all’Ungheria riguarda la riconduzione forzata, in una situazione di crisi causata da un’immigrazione di massa, dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel suo territorio è irregolare su una striscia di terra priva di qualsiasi infrastruttura, tra una barriera di frontiera, situata nel territorio ungherese, e la frontiera serbo-ungherese propriamente detta, senza che le procedure e le garanzie previste da tali disposizioni siano rispettate. Sul punto, la Corte rileva che il cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno è irregolare dev’essere oggetto di una procedura di rimpatrio, la cui successione delle fasi corrisponde ad una gradazione delle misure, che deve, in linea di principio, essere stata adottata «affinché sia rimpatriato in maniera umana e nel pieno rispetto dei suoi diritti fondamentali nonché della sua dignità». Ne consegue che, contrariamente a quanto argomentato dall’Ungheria, la riconduzione forzata di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare al di là della barriera di frontiera eretta sul suo territorio è da considerarsi una forma di allontanamento coatto.
Infine, la Corte di giustizia contesta all’Ungheria di non aver rispettato il diritto dei richiedenti protezione internazionale di rimanere nel territorio dello Stato membro interessato dopo il rigetto della propria domanda, fino alla scadenza del termine previsto per la presentazione di un ricorso avverso tale rigetto o, in caso di proposizione del ricorso, fino all’adozione di una decisione su quest’ultimo. La normativa ungherese prevede che, in caso di dichiarazione di una situazione di crisi causata da un’immigrazione di massa, i richiedenti sono tenuti a rimanere nelle zone di transito fino all’esito del procedimento che ha ad oggetto l’esame del ricorso avverso la decisione di rigetto dell’autorità competente. Nel caso in cui, invece, una situazione del genere non venga dichiarata, il diritto di rimanere sul territorio ungherese è subordinato ad altre condizioni che non sono state meglio definite dallo Stato membro, così impedendo al richiedente protezione di conoscere l’esatta portata di tale diritto e di valutare se modalità siffatte siano compatibili con le direttive «procedure» e «accoglienza».
Essenziale la pronuncia in commento
La pronuncia in commento rappresenta un momento essenziale nella riflessione sulla crisi migratoria che da tempo sollecita il dibattito intorno alle politiche xenofobe di Orban, rimarcando l’importanza di adottare politiche condivise per scongiurare il pericolo che gli impeti sovranisti accendano nuovi focolai nella trama dei rapporti con le Istituzioni europee.
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