Stati Uniti: radiografia di un’insurrezione

13 gennaio 2021
Editoriale Politica
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Ciò che è avvenuto il 6 gennaio a Washington D.C. non è stato un tentativo di colpo di stato, bensì di insurrezione politica. Nella sua storia, l’America non ha mai conosciuto colpi di stato (a livello federale), ma ha conosciuto diverse insurrezioni politiche (sia a livello federale che statale). Come ha scritto Richard Kreitner (nel suo, Break It Up), la storia americana è stata scadenzata da sedizioni e secessioni di carattere insurrezionale. Solamente chi non conosce (o non ha mai studiato) l’America, può pensare che essa sia immune dall’autoritarismo. Di qui, tre domande.

Prima domanda: come interpretare l’insurrezione del 6 gennaio? Essa è stata un’insurrezione dell’estrema destra nei confronti della democrazia liberale, un’insurrezione che ha rivelato l’anima autoritaria del populismo. Quest’ultimo ritiene che non debbano esserci vincoli all’esercizio del potere da parte del ‘popolo’ (così come è rappresentato dal leader populista). Che poi il ‘popolo’ voti a maggioranza per gli avversari del populismo (nel 2016, Hillary Clinton ha ricevuto quasi tre milioni di voti in più di Donald Trump; nel 2020, Joe Biden ne ha ricevuti quasi otto milioni in più), per i populisti è una notizia irrilevante. Il populismo ha consentito l’incontro tra una personalità autoritaria (Donald Trump) e pezzi (minoritari) di società americana (in particolare al sud) che domandano autoritarismo. Donald Trump è un esempio da manuale della personalità autoritaria studiata da Erich Fromm nel 1957. Vittimismo infantile, insicurezza personale, ego sproposito, ‘noi’ contro ‘loro’. Nello stesso tempo, la minoranza che ha invaso il Campidoglio esprimeva un risentimento identitario non riconducibile, come ha spiegato Larry Rosenthal (nel suo, Empire of Resentment), ad una condizione di mero spossessamento economico. Un risentimento identitario particolarmente diffuso negli stati del sud, dove il mito della “causa perduta” (dalla Confederazione nella Guerra Civile del 1861-1865) è stato il fiume che ha raccolto, per un secolo e mezzo, le acque dei sentimenti autoritari e razzisti (per dirla con Karen L. Cox, No Common Ground). Il populismo è diverso da Paese a Paese, ma ovunque favorisce esiti illiberali. Ecco perché, una volta al potere, non vuole lasciarlo. Ricordiamocelo.

Seconda domanda: perché è avvenuta l’insurrezione? Certamente perché alcune ragioni del risentimento sociale non sono state affrontate, ma soprattutto perché l’ascesa di Trump non è stata contrastata. In pochi anni, Trump ha conquistato il Partito repubblicano, sovrapponendogli la propria immagine. Secondo i dati riportati da Pippa Norris (Foreign Affairs), il 45 per cento degli elettori repubblicani ha approvato l’insurrezione, l’88 per cento ritiene che le elezioni siano state “truccate”. Amy Walter (National Politics) ha calcolato che il 57 per cento dei membri repubblicani dell’attuale Congresso si riconoscono in Trump piuttosto che nel partito. Per anni, i leader repubblicani (come i senatori Mitch McConnell o Lindsey Graham) hanno pensato di addomesticare la tigre assecondandone gli istinti. Eppure, come hanno spiegato Steven Levitsky e Daniel Ziblatt (nel loro, Come muoiono le democrazie), spetterebbe ai partiti della destra moderata fare argine agli attacchi che provengono dalla destra estrema, se vogliono proteggere la democrazia liberale. Ciò vale anche per i principali gruppi economici che hanno assecondato Trump in cambio di concessioni come i tagli alle corporate taxes e al welfare sociale. Il tentativo di insurrezione del 6 gennaio ha mostrato che la tigre stava divorando i suoi presunti addomesticatori. Subito dopo, i leader repubblicani del Senato hanno preso le distanze da Trump, il Wall Street Journal ha scritto che Trump deve dimettersi, la Business Roundtable ha denunciato l’illegalità dei comportamenti di Trump, la US Chamber of Commerce ha invitato il Congresso a considerare tutti gli strumenti legali per difendere la democrazia da Trump. Basterà? Comunque, se il populismo autoritario è una minaccia per il governo della democrazia americana, lo è anche per la nostra democrazia. Come è possibile che, commentando l’insurrezione, Matteo Salvini si sia limitato a dire che “la violenza non è mai una soluzione” (violenza da parte di chi?) e Giorgia Meloni abbia auspicato “che le violenze cessino subito come chiesto dal presidente Trump” (dal presidente Trump?). L’ambiguità può far guadagnare un voto, ma non la legittimità a governare una democrazia liberale. Ricordiamocelo.

Terza domanda: cosa succederà ora? È probabile che la Camera dei rappresentanti avvierà la procedura per l’impeachment di Trump. Il capo d’accusa è incitement of insurrection. L’obiettivo è ‘disqualificare’ Donald Trump. Il voto per disqualificare il presidente è a maggioranza dei membri del Senato, mentre quello per la sua rimozione richiederebbe il consenso dei 2/3 di loro. Se disqualificato, Trump non potrebbe presentarsi alle elezioni presidenziali del 2024. Cosa che ha invece intenzione di fare. Proprio ieri ha inviato due tweets (subito bloccati), uno dei quali esaltava “i grandi patrioti americani”, che hanno combattuto per lui, “assicurandoli che avranno una voce gigantesca nel futuro dell’America”. Tuttavia, la procedura di impeachment potrà mettere fuori gioco Trump ma non il trumpismo. Se le cause identitarie del risentimento sociale non sono facilmente aggredibili, possono essere affrontate però quelle dovute a scelte che hanno generato diseguaglianze sociali e dislocazioni economiche. I 74 milioni di elettori di Trump non coincidono con la minoranza che ha assalito il Campidoglio. Le democrazie liberali prosperano se inclusive. Ricordiamocelo.

In conclusione, l’insurrezione americana non è stata la profanazione di un paradiso terrestre. Le democrazie possono essere minacciate a Washington D.C., a Budapest o a Roma. Per questo motivo, occorre rafforzare l’interdipendenza politica, oltre che economica e militare, tra di loro. Se l’America è oggi in difficoltà, spetta all’Europa prendere l’iniziativa per dare vita ad un Summit delle democrazie. Alla diffusione del virus autoritario occorre opporre la diffusione del vaccino liberale.

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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