Il sovraffollamento nelle carceri italiane. Una riflessione sui luoghi in cui il distanziamento è solo un’utopia

16 gennaio 2021
Editoriale Open Society off
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I resoconti sull’anno che è appena trascorso ci hanno ricordato il dolore per una intera generazione di anziani che ci ha lasciato, la sofferenza di figli che non hanno potuto dare l’ultimo saluto a genitori portati via da una malattia impietosa, l’eroismo di infermieri e medici che non hanno esitato ad esporsi al rischio di contagio per salvare vite umane, il senso di responsabilità degli italiani nella prima fase della pandemia, quando il lockdown ha sospeso le nostre vite tenendoci prigionieri nelle nostre abitazioni.

Molto meno è stato detto e scritto sugli effetti che la pandemia ha prodotto tra gli oltre 53.000 detenuti nei 189 istituti penitenziari italiani. Il silenzio è stato rotto dagli scritti di Fiandaca e di Bentivogli e dall’articolo di Liliana Segre e Mauro Palma in cui, tra l’altro, traendo spunto dal tema del vaccino si sottolinea che “il carcere è luogo strutturalmente chiuso, dove peraltro, dati i numeri attuali, la misura del distanziamento è impossibile”. Abbiamo tutti provato, in questo anno terribile, il senso opprimente dell’essere obbligati a non uscire di casa, a condividere spazi limitati, in una convivenza a volte forzata e in alcuni casi matrice di atroci violenze familiari a carico delle donne. Eppure questa prova terribile cui tutti siamo stati sottoposti non ci ha affatto avvicinato al tema del carcere e delle sofferenze che esso comporta. Anzi, ha forse stimolato ancor più la diffusa considerazione che “loro” sono reclusi perché si sono macchiati di gravi reati, mentre “noi” siamo stati privati della libertà nonostante fossimo privi di colpe.

Ciò ha dilatato ancor più il concetto che il carcere sia “altro da sé”, rappresenti cioè un mondo che non ci appartiene, da relegare quindi lontano e di cui non vale la pena di parlare. Quando poi, dopo le prime settimane che hanno visto dilagare il contagio, è scoppiata la rivolta in alcune carceri, si è subito pensato (forse non a torto) che si sia trattato di una reazione a catena innescata dalla criminalità organizzata. Non si è invece pensato al silenzioso eroismo degli agenti di polizia penitenziaria (anche essi travolti dall’oblio per tutto ciò che attiene al carcere) che, oltre ad aver affrontato quotidianamente il rischio del contagio, hanno avuto la capacità di sedare la ribellione senza che vi siano state vittime o evasioni. Né si è parlato del ruolo che gli stessi detenuti hanno svolto, contrapponendosi ai pochi violenti, aiutando a riportare l’ordine e dimostrando quanto la funzione rieducativa del carcere si affianchi, come la nostra Costituzione sottolinea, a quella punitiva. Né, infine, ci si è soffermati sul senso di isolamento già connaturato al carcere, ma accentuato dalla impossibilità, per evitare il contagio, di incontrare i propri familiari. Solo chi ha avuto esperienze di visite al carcere sa quanto siano significativi per i detenuti gli incontri con i propri cari e quanto sul numero dei suicidi influisca il loro diradarsi o venir meno. Sono stata testimone diretta di almeno due episodi significativi di questa correlazione nel breve periodo in cui sono stata Ministro della Giustizia. Il primo ha riguardato una detenuta che si tolse la vita nel carcere di Cagliari. Accorsa per verificare se vi fossero state inadempienze della struttura, mi trovai tra le lacrime di detenute e agenti disperate per non aver potuto impedire ciò che probabilmente era inevitabile. La donna, infatti, era stata completamente abbandonata dalla famiglia la quale, come ultimo atto di spregio, non volle neppure la restituzione del cadavere. Il secondo ha riguardato un detenuto del carcere di Torino. Notai la sua cella perché, diversamente da quella di altri detenuti – che si affacciavano per vedermi e parlarmi – appariva disabitata. Mi avvicinai alle sbarre e dal buio emerse il volto disperato di un uomo che aveva dei segni lividi intorno al collo. Chiesi cosa fosse accaduto e lui mi raccontò trattenendo le lacrime di aver tentato di suicidarsi con un lenzuolo intorno al collo, dopo aver saputo che la sua istanza di trasferimento in un carcere più vicino ai familiari era stata respinta. Considero tutt’ora quegli episodi significativi di quanto ciascuno di noi potrebbe impegnarsi se conoscesse storie simili e di quanto, pur presi comprensibilmente dai timori della pandemia e dei suoi disastrosi effetti, potremmo fare per non escludere i detenuti da un cammino di rieducazione e reinserimento sociale, reso ancora più difficile dal totale isolamento anche rispetto agli affetti più cari. Si tratterebbe di un bel modo per rendere noi cittadini partecipi nella attuazione di principi fondamentali della nostra Costituzione.

 

Questo articolo è precedentemente apparso su La Stampa. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Vice Presidente della Luiss Guido Carli con delega alla promozione delle Relazioni Internazionali.


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