Comprensione per il diavolo. Perché ascoltare gli elettori sovranisti può salvare la democrazia

18 gennaio 2021
Editoriale Politica
FacebookFacebook MessengerTwitterLinkedInWhatsAppEmail

Il termine del quadriennio populista

La sconfitta di Donald Trump, ulteriormente appesantita dagli eventi inqualificabili del giorno dell’Epifania, chiude senz’altro un periodo: quello apertosi nel 2016 proprio con la sua ascesa alla Casa Bianca da un lato e con la decisione del Regno Unito di uscire dall’Unione Europea dall’altro – una vicenda che ha anch’essa trovato la sua conclusione definitiva proprio in questi giorni. Potremmo chiamare questo periodo il “quadriennio populista”. Ora, il chiudersi del quadriennio populista mette certamente i partiti politici di destra e centro destra, italiani e non, populisti e non, di fronte alla necessità di ripensarsi. Al centro destra non populista, lascia credere che si possano aprire gli spazi per una rivincita, per recuperare l’elettorato perduto. E richiede alla destra populista un ripensamento strategico: la “strategia della spallata” ha mostrato tutti i suoi limiti, l’ondata 2016-2020 è entrata in una fase di riflusso, come si può immaginare – ammesso che si possa immaginare – una guerra populista di posizione piuttosto che di assalto all’arma bianca? Già di per sé, la sconfitta di Trump imponeva alla destra sovranista – e come vedremo non solo ad essa – di ripensare le proprie posizioni e strategie. Quel che è accaduto a Washington nel giorno dell’Epifania rende questa riflessione ancora più urgente. Al centro del problema non c’è più il Presidente uscente, ormai, ma i suoi elettori. E se allarghiamo lo sguardo al di là degli Stati Uniti, ci sono i consistenti segmenti di opinione pubblica che in pressoché tutte le democrazie avanzate, a cominciare dalla nostra, assomigliano a quello trumpiano per conformazione sociologica e culturale.

Come agire rispetto all’elettorato  sovranista

Che cosa è giusto e possibile fare con costoro? Delegittimarli, tagliarli fuori dalle istituzioni e isolarli, sperando che col tempo le loro schiere si riducano, o comunque restino una minoranza, per quanto consistente? Oppure cercare di capire perché siano così furiosi, di rispondere alle loro esigenze e ricucirne il rapporto con le istituzioni? I movimenti che variamente chiamiamo populisti o sovranisti catalizzano e alimentano le emozioni dei propri elettori, ma non le creano. Hanno individuato una domanda politica e hanno costruito su di essa la propria offerta. Se quella domanda c’era, era perché i partiti tradizionali, così di destra come di sinistra, non sapevano darle risposta. Peggio ancora: non si erano neppure accorti che stesse montando. La destra sovranista è nata insomma dalle mancanze delle forze politiche preesistenti, e in particolare del centro destra liberale, conservatore o popolare. Almeno finora, quelle forze politiche non hanno saputo elaborare un’efficace strategia di recupero dei voti passati ai populisti. Non ha molto senso affermare, come spesso si fa, che l’antidoto al sovranismo è lo sviluppo di una destra liberale. Perché il sovranismo è nato precisamente dalle insufficienze della destra liberale. E fin quando quella non riuscirà a mettersi in pari con la storia, o la storia non si metterà in pari con lei, faticherà a recuperare centralità nello spazio pubblico.

Ridare legittimità alle rivendicazioni

Che cosa fare con l’elettorato sovranista, allora, è una domanda che va rivolta soprattutto ai partiti sovranisti. Sono loro a dover valutare se e come portare i propri voti nelle istituzioni, se e come rendere la propria proposta politica compatibile con vincoli economici, istituzionali, internazionali che forse non è impossibile, ma certo è assai rischioso forzare. E bisogna riconoscere che il loro è un compito assai arduo. Un po’ perché l’elettorato sovranista è scarsamente controllabile, ed è difficile dargli risposte senza disarticolare i vincoli economici, istituzionali, internazionali che, di fatto, lo costringono e penalizzano. Un po’ perché i partiti sovranisti sono assai poveri di risorse adeguate a un’operazione così complessa e delicata: cultura, competenze, classe dirigente. E un po’ perché, in definitiva, i loro leader possono trovare conveniente rimanere nel ghetto e godere delle rendite di posizione che derivano dal rappresentare comunque una fetta consistente dell’elettorato. Sperando che magari, col tempo, si apra lo spazio per lucrare qualcosa in più grazie al deteriorarsi di un ordine politico e sociale che non se la passa poi troppo bene. Ma che cosa fare con l’elettorato sovranista non è una domanda rilevante soltanto per i partiti sovranisti o le destre liberali. Va rivolta pure alle forze progressiste. Ne va della buona salute della democrazia. E poi quell’elettorato proviene in larga misura da fasce socialmente e geograficamente marginali: gli sconfitti che la sinistra ha sempre preteso di rappresentare e difendere. Finora i progressisti hanno per lo più rifiutato di riconoscere legittimità alle frustrazioni e rivendicazioni della base sovranista. Le hanno giudicate effimere e superficiali, frutto di irrazionalità quando non immoralità: gli elettori di pancia nutriti di rabbie e paure, i «deplorevoli» che possono soltanto essere emarginati e isolati. Simmetricamente, politica e cultura progressiste si sono arroccate sempre di più a difesa delle proprie casematte istituzionali, mediatiche, accademiche. E se qualcuno si azzarda a ricordare loro che la sinistra non è nata per arroccarsi di fronte alle angosce dei deboli, come ha fatto da ultimo Fabrizio Barca, reagiscono assai male. Non è detto che questa strategia non funzioni. Oggi per altro, dopo la sconfitta di Trump, sembra poter funzionare più di quanto non si pensasse ieri. Ed eventi come quello del 6 gennaio ne accrescono la legittimità: chi può mai pensare di ragionare con un tizio con le corna e la faccia dipinta? Rimane tuttavia una strategia rischiosa, perché lascia a fermentare nel loro brodo un bel po’ di rabbia e frustrazione. Tanto più rischiosa perché nessuno può prevedere oggi come saranno le democrazie quando usciranno infine dalla crisi pandemica.

 

Questo articolo è precedentemente apparso su la Stampa. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Giovanni Orsina è il Direttore della Luiss School of Government


Website
Newsletter