Uniti contro il Covid. La Corte Costituzionale boccia l’autonomia regionale nella gestione dell’emergenza

30 gennaio 2021
Editoriale Sostiene la corte
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Fino ad oggi, la Corte costituzionale non aveva mai utilizzato i poteri di sospensione di una legge. Poteri di cui dispone fin dal 2003. Con l’ordinanza n. 4, depositata il 14 gennaio 2021, la Corte ha, infatti, sospeso l’efficacia della legge della Regione Valle d’Aosta n.11 del 9 dicembre 2020, contenente la gestione regionale dell’emergenza epidemiologica provocata dalla diffusione del virus Covid-19.
Il legislatore valdostano ha voluto introdurre una propria disciplina dell’emergenza epidemiologica, in autonomia rispetto al resto d’Italia. Non sembri azzardato questo giudizio. È sufficiente dare una scorsa all’art.2 per rendersi conto che la legge interviene sulle principali sfere di vita toccate dalle misure emergenziali di questi mesi: si inizia con le attività economiche e le relazioni sociali e si finisce con gli esami di idoneità alla guida degli autoveicoli, passando per gli spostamenti nel territorio (tra l’altro di confine), per l’attività sportiva e così via. In pratica tutte le sfere di vita individuale, sociale ed economica sono disciplinate dal provvedimento legislativo. Sia chiaro, con l’ord. 4/2021 la Corte non ha espresso un giudizio sul merito della legge, rinviando questa valutazione ad un secondo momento. Ha solo ritenuto che dall’esecuzione della legge possa derivare un «irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico» nonché «il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini». Da qui l’esigenza di sospendere l’esecuzione della legge in attesa del responso definitivo sulla sua conformità a Costituzione.

Il pregiudizio della Corte

Risulta fondato il giudizio prognostico della Corte? A mio avviso la risposta è senz’altro positiva alla luce del tenore della legge in questione, la quale si pone come sistema alternativo rispetto alle misure nazionali. Fin dall’art.1, c.3, viene detto che «tutte le attività produttive, industriali e commerciali, professionali, di servizi alla persona, sociali, culturali, ricreative e sportive, sono condizionate all’osservanza rigorosa e responsabile delle misure di sicurezza fissate dalla presente legge, sino alla cessazione totale dello stato di emergenza dichiarato a livello statale». Nella prospettiva della Valle d’Aosta lo Stato diventa paragonabile allo starter di una gara di velocità, che ha solo la funzione di dare l’avvio e di segnare la fine della gara, senza minimamente influire sulle regole della gara. Il che, in una situazione di emergenza nazionale, è quanto meno anomalo. Ma il legislatore valdostano non si limita a questo, dichiarando espressamente di voler intervenire sui diritti dei cittadini più strettamente correlati all’emergenza («le libertà di movimento dei cittadini, le attività economiche e le relazioni sociali, compatibilmente con le misure di contrasto alla diffusione del virus») (art.2, c.1). Anche in questo caso mancano del tutto riferimenti alla normativa statale o comunque strumenti e momenti di coordinamento con l’attività dello Stato. Insomma, la sensazione è che il legislatore regionale sia voluto andare per la sua strada, in piena autonomia rispetto alle misure e all’azione dello Stato.

Diritti fondamentali e dimensione emergenziale

La vicenda valdostana permette alcune considerazioni generali sull’impatto dell’emergenza pandemica in uno Stato composito come è quello italiano. Emerge, innanzitutto, il piano dei diritti fondamentali. Questi ricevono una disciplina costituzionale che è, di necessità, nazionale. Anche i limiti a tali diritti devono discendere dalla normativa nazionale o comunque essere da questa previsti, per quanto ci si muova in una dimensione straordinaria di emergenza pandemica. La disciplina attuativa dei diritti fondamentali e dei limiti ad essi apponibili, nello Stato regionale italiano, è, in sostanza, prerogativa del Parlamento. Neanche le Regioni speciali, pur dotate di poteri legislativi primari, fanno eccezione a tale riserva. Questi maggiori poteri assegnano, certo, a tali Regioni una più ampia sfera di azione, perché meno vincolata dalla legislazione statale, ma incontrano comunque il limite dei diritti.
A questo punto sorge una domanda: non si rischia così di perdere, in nome di pur giuste esigenze di eguaglianza, l’adeguamento alle specificità regionali, locali in generale, che la gestione di una pandemia potrebbe pure richiedere? In altre parole, non è una caratteristica degli Stati composti, in cui l’autonomia dei livelli locali è costituzionalmente garantita, permettere ai livelli di governo locale di differenziare la propria offerta regolativa, se necessario o opportuno rispetto alle esigenze locali?

Decreti-legge, d.P.C.m. e interferenze con Regioni speciali

Entra qui in gioco una seconda prospettiva d’analisi, che si intravvede attraverso gli atti processuali prodotti dallo Stato e dalla difesa regionale. Il piano d’analisi è quello dei concreti strumenti normativi per gestire una crisi eccezionale in uno Stato composto.
L’emergenza è nazionale, per quanto le differenti realtà regionali possano presentare esigenze differenziate. Allo stesso tempo, date le peculiarità della crisi caratterizzata dalla necessità di continui adattamenti della regolazione normativa alle rapide mutazioni della pandemia, sono necessari strumenti normativi molto elastici. Diventa così indispensabile il gioco tra piano legislativo e piano amministrativo, pur con i rischi di confusione, sovrapposizione, di vero e proprio smarrimento, cui esso ci ha abituati. Nasce qui il continuo ricorso a decreti-legge che rinviano a successivi d.P.C.m. In altri termini, dalla previsione legislativa, che essa stessa si succede con straordinaria rapidità, si passa all’attuazione amministrativa. Ed è chiaro che, in questo gioco di rinvii tra norma primaria e norma secondaria, si annida il rischio che strumenti regolamentari, di natura secondaria, come sono i d.P.C.m., finiscano per interferire, per un verso, con diritti fondamentali e, per l’altro, con le potestà legislative primarie delle Regioni speciali (un aspetto denunciato dalla difesa della Regione).

L’esempio della Valle d’Aosta apre un sentiero accidentato

Provo ora a rispondere alla domanda. Se in questa complessa gestione ciascuna Regione pretendesse di seguire la strada della Valle d’Aosta – creando un sistema del tutto simmetrico, fatto di una legge e di ordinanze del Presidente della Giunta regionale – l’esito sarebbe sicuramente peggiore, se non catastrofico, rispetto all’attuale gestione nazionale, anche perché le Regioni non dispongono dello strumento del decreto-legge. La conseguenza è che sarebbero le ordinanze del Presidente della Regione a ‘dettar legge’. Il rischio, insomma, sarebbe di avere tanti sistemi regionali di gestione della pandemia quante sono le Regioni. A subirne le conseguenze sarebbero, come ha detto la Corte riprendendo il dettato della legge attributiva dei suoi poteri, i diritti dei cittadini e soprattutto l’interesse pubblico.
Infine, l’ordinanza ha inviato un messaggio forte e chiaro a Governo e Regioni: «la pandemia in corso ha richiesto e richiede interventi rientranti nella materia della profilassi internazionale di competenza esclusiva dello Stato». Più esplicita di così la Corte, in questa sede, non poteva essere.

L'autore

Raffaele Bifulco è Professore ordinario di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss.


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