Non solo donne a protestare nelle piazze polacche. La sentenza che limita ulteriormente il diritto all’aborto

4 febbraio 2021
Editoriale Open Society
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In vigore la sentenza del Tribunale costituzionale polacco 

Con la sentenza K. 1/20 del 22 ottobre 2020, il Tribunale costituzionale polacco ha dichiarato l’incompatibilità di diverse disposizioni della legge 7 gennaio 1993 sulla pianificazione familiare, la protezione del feto umano e le condizioni di ammissibilità dell’interruzione della gravidanza con l’art. 38 in combinato disposto con gli artt. 30 e 31, comma 3, della Costituzione della Repubblica polacca, per violazione della dignità umana e del diritto alla vita. La sentenza, entrata ufficialmente in vigore il 27 gennaio 2021, data in cui le motivazioni sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale, limita la possibilità di accedere alla pratica abortiva alle sole ipotesi di pericolo di vita per la donna incinta o in caso di gravidanza dovuta a stupro o a incesto. Viene meno, in questo modo, la facoltà di farvi ricorso in caso di gravi ed irreversibili malformazioni del feto o sindromi che ne minacciano la vitaIl giudice costituzionale ha, dunque, ulteriormente compresso l’ambito di applicazione della legge polacca in materia di interruzione volontaria di gravidanza, scatenando la discesa in piazza di numerosi movimenti di protesta già nei giorni precedenti all’adozione della tanto criticata pronuncia.

La condanna da parte del Parlamento europeo

 È indubbio che la sentenza della Corte costituzionale polacca, restringendo – e di molto – le maglie della normativa, finisca per impattare sulla percentuale già elevatissima di aborti praticati illegalmente all’interno del Paese e all’estero.
La protesta, nata principalmente dalla rivolta delle donne scese in piazza a difesa dei propri diritti, si è estesa pian piano anche ad altre fasce della popolazione, alle comunità LGBT, ai docenti universitari, agli studenti, divenendo una voce corale che ha portato il Governo polacco, guidato dal partito della destra cattolica e conservatrice Diritto e Giustizia (PiS), a ritardare la pubblicazione della sentenza e, dunque, la sua entrata in vigore.L’eco della vicenda ha tracimato poi i confini polacchi, arrivando a richiamare l’attenzione delle Istituzioni europee. È del 20 novembre scorso l’interrogazione parlamentare, presentata da trentasette eurodeputati di diversa affiliazione politica, rivolta alla Commissione UE al fine di conoscere gli intendimenti a garanzia del diritto delle donne di praticare un aborto accessibile e sicuro nonché a garanzia del diritto all’autonomia fisica, a fronte della sentenza della Corte costituzionale che, di fatto, ha introdotto “il divieto di aborto”.Il 29 novembre, con una risoluzione adottata con 455 voti a favore, il Parlamento europeo ha condannato con forza la sentenza del Tribunale costituzionale e il passo indietro della Polonia per quanto riguarda la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti delle donne polacche, dichiarando altresì che “la sentenza mette a rischio la salute e la vita delle donne”. La risoluzione sottolinea inoltre la patente violazione da parte delle autorità polacche delle numerose convenzioni internazionali a tutela dei diritti di cui la Polonia è firmataria, nonché della stessa Costituzione della Repubblica di Polonia.

Violazione dei diritti umani

 Al fine di comprendere la portata e gli effetti che produrrà la pronuncia del Tribunale costituzionale polacco, occorre partire dal clima di fortissima tensione che ha accompagnato il dibattito politico interno in ordine alla tutela dei diritti delle donne. Indubbiamente, la caratura ideologica e religiosa fortemente radicata nell’ordinamento polacco rappresenta un elemento cruciale nelle mosse del processo decisionale, spostando spesso l’asse della concertazione politica al di fuori della cornice giuridica e indirizzandone le declinazioni alle influenze politiche delle frange più ortodosse.Peraltro, da tempo la Polonia è oggetto di forte preoccupazione in Europa per la violazione dei principi fondanti dello Stato di diritto e dei valori di libertà e di democrazia. Come evidenziato dallo stesso Parlamento europeo, la Polonia occupa il fanalino di coda nel sistema di tutela dei diritti umani, come dimostra peraltro la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, anche in ordine alla tematica della salute riproduttiva (cfr. sentenze CEDU R.R. c. Polonia, 26 maggio 2011, e P.S. c. Polonia, 30 ottobre 2012).A ben vedere, le questioni sul tappeto sono molte e giungono ad interessare anche altri settori dell’ordinamento giuridico, quale il reclutamento dei magistrati, della cui indipendenza e terzietà dubita anche il Parlamento europeo, censurando l’operato della Corte costituzionale in quanto composta da “da giudici eletti, e totalmente dipendenti, da politici della coalizione di governo guidata dal partito Diritto e Giustizia (PiS)”.

Resilienza

Volendo tratteggiare qualche considerazione sintetica a margine della complessa vicenda i cui approdi evolutivi sono destinati ad intrecciarsi con i risvolti della crisi pandemica in atto, giova richiamare l’attenzione su un aspetto che supera i contorni del caso concreto e rappresenta un elemento di analisi nell’attuale momento storico. In questi mesi, le piazze di Varsavia e delle altre città polacche si sono tinte di rosso. Il simbolo della protesta femminile, la saetta rossa, primeggia sui cartelli, sulle mascherine, sui volti.  La lotta per i diritti è diventata voce efficace nelle parole di una comunità stanca di un sistema di soprusi e di corruttele. La coscienza collettiva si è dimostrata lo strumento più efficace di affermazione delle istanze sociali e di resilienzaL’ordinamento polacco pare restituire proprio questa immagine. A fronte di una legge tra le più restrittive nel panorama europeo, che pare mortificare ancora una volta e ingiustificatamente la dignità della persona, l’afflato corale si è fatto costruttore attento di uno spirito di ordinata ribellione con lo scopo di garantire – nel solco di quanto sancito dal dettato costituzionale polacco – l’effettiva tenuta della “Casa comune” anche nell’interesse delle generazioni future.

 

 

L'autore

Ilaria Rivera è Docente a contratto presso l’Università degli studi di Macerata. Consigliere giuridico presso l’Ufficio di Gabinetto del Ministero dello Sviluppo economico.


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