Nuove dal fronte Davigo. L’ex pm dovrà essere giudicato dal giudice ordinario

9 febbraio 2021
Editoriale Sostiene la corte
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Premessa

Il c.d. caso Davigo si arricchisce di un ulteriore seguito giurisprudenziale. Una volta intervenuta la delibera da parte del C.S.M. con cui era stata dichiarata la cessazione dalla carica (su cui si veda la ricostruzione di G. Piccirilli, Il “caso Davigo” è solo l’inizio di una riflessione sulla natura del CSM | Luiss Open), l’ex-consigliere togato del C.S.M. aveva immediatamente esperito ricorso al giudice amministrativo (prima al T.A.R., poi al Consiglio di Stato), lamentando l’illegittimità della stessa, e chiedendone l’annullamento. Sia il T.A.R. Lazio (prima) che il Consiglio di Stato (poi) hanno respinto i ricorsi, declinando la propria giurisdizione. In particolare, Davigo contestava la delibera del plenum del C.S.M. del 19-10.2020 perché, a suo dire, aveva ingiustificatamente anticipato la cessazione del mandato prima del decorso del termine ordinario di 4 anni, negando anche che vi fosse un collegamento diretto tra lo status di magistrato in servizio e il mandato consiliare, in quanto, a suo avviso, l’appartenenza all’ordine giudiziario non costituiva condizione per il mantenimento della carica, ma solo per la presentazione della candidatura. Quanto alla scelta di adire la giurisdizione amministrativa, Davigo osservava che la delibera impugnata costituiva esercizio di poteri autoritativi, e, come tale, era soggetta al sindacato da parte del giudice amministrativo.

La decisione del T.A.R. Lazio

Accogliendo le eccezioni sia del Ministero della Giustizia che dello stesso C.S.M., il T.A.R. Lazio sez. I, sent. 13 novembre 2020, n. 11814, dichiara il difetto di giurisdizione, in quanto, a suo dire, il riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, per quanto riguarda le elezioni amministrative, si svolge in base al rilievo che al giudice ordinario spettano tutte le controversie riguardanti ineleggibilità, decadenza e incompatibilità dei candidati, mentre al giudice amministrativo spettano solo le questioni riguardanti la regolarità del procedimento elettorale. La posizione di diritto soggettivo dell’interessato non viene intaccata dal fatto che, esaurita la fase elettorale, alla amministrazione spetti il compito di verificare la sussistenza di una causa di incompatibilità o di decadenza (il T.A.R. richiama Cons. Stato, sez. V, 15 luglio 2013, n. 3826). Pur non essendo in questione una causa di ineleggibilità, incompatibilità, o decadenza in senso proprio, il T.A.R. non ritiene che le differenze esistenti con il caso in giudizio siano significative ai fini della decisione. In particolare, il T.A.R. nega che la delibera del C.S.M. configuri una ipotesi di atto di natura autoritativa, trattandosi piuttosto di attività di verifica amministrativa della sussistenza dei requisiti per il mantenimento della carica, ivi compresi quei requisiti che costituiscono un prius logico rispetto al diritto di elettorato passivo (nel caso di specie, lo status di magistrato). Di conseguenza, la verifica ad opera del C.S.M. non è idonea a fare degradare a interesse legittimo la posizione dell’interessato. Ad adiuvandum, il T.A.R. cita anche Cass. civ., sez. un., ord. 6 aprile 2012, n. 5574, in cui viene affermato che sono devolute alla cognizione del giudice ordinario le controversie concernenti ineleggibilità, decadenza e incompatibilità, che la giurisdizione del giudice ordinario non incontra deroghe e limitazioni nel caso in cui la questione di eleggibilità venga introdotta mediante impugnazione del provvedimento di decadenza, perché la questione non riguarda l’annullamento dell’atto amministrativo, ma il diritto soggettivo perfetto all’elettorato attivo e passivo, e che infine, il principio si attaglia de plano ai componenti elettivi del C.S.M.

Il ricorso al Consiglio di Stato

Anche il Consiglio di Stato, adito da Davigo subito dopo il rigetto del ricorso da parte del T.A.R., conferma che la controversia debba essere soggetta alla cognizione da parte del giudice ordinario e respinge l’appello (sez. V, sent. 7 gennaio 2021, n. 215). Secondo i giudici di Palazzo Spada, il problema sta tutto nel quesito se la delibera da parte del C.S.M. sia da considerarsi come un vero e proprio provvedimento amministrativo, o non, piuttosto, come un mero atto ricognitivo. A loro avviso, la seconda prospettiva è quella corretta, in quanto la delibera impugnata non rappresenta l’esercizio di un potere, e non concreta quindi una manifestazione di autoritatività, rientrando nella attività (vincolata) di verifica della sussistenza dei requisiti legalmente necessari per il mantenimento della carica. Né è possibile desumere argomenti in senso contrario dal fatto che l’atto contestato segua una ampia discussione consiliare e recepisca una motivazione.Quanto all’oggetto della tutela, il Consiglio di Stato rileva che è la pretesa a permanere ex art. 104, comma 6, Cost. membro effettivo del C.S.M. per 4 anni, indipendentemente dal collocamento a riposo, e, come tale, costituisce esplicazione di diritti soggettivi di elettorato passivo. Il diritto all’elettorato passivo costituisce un diritto soggettivo perfetto che non è sottratto alla giurisdizione ordinaria per il solo fatto di essere dedotto in giudizio attraverso l’impugnazione di un apparente provvedimento amministrativo (oltre a Cass. civ., sez. un., ord. n. 5574/2012, vengono citate anche Cass. civ., sez. un., sentt. nn. 11131/2015, 13403/2017 e 15691/2015; Cons. Stato, sez. V, sent. n. 2836/2013).

L'autore

Andrea Ridolfi è Dottore di Ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni Politiche comparate presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza (XV Ciclo) nonché titolare di docenza integrativa presso la Cattedra di Diritto Costituzionale della LUISS


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