Un cambiamento possibile. Le soluzioni che migliorano la qualità della pubblica amministrazione italiana
11 febbraio 2021
I grossi limiti della pubblica amministrazione
Sulle pubbliche amministrazioni in Italia s’appuntano, è noto, svariate critiche. D’altronde, da almeno tre decenni si sono ripetuti tentativi di riforme amministrative, di massima ispirate ad esperienze orientate più al mercato che all’autorità legale-burocratica, che altrove hanno avuto qualche successo (sebbene spesso non all’altezza delle aspettative). Ciononostante, indagini d’opinione, come l’Eurobarometro, registrano da tempo un’insoddisfazione crescente della popolazione italiana nei riguardi della burocrazia, divenuta genericamente sinonimo di malamministrazione, cumulo di complicazioni inutili, finanche perverse. Tale percezione negativa si è inasprita nell’emergenza pandemica. La preoccupazione dominante – che pure ha trovato espressione nella crisi del governo Conte II – è che le debolezze, i ritardi, le rigidità dell’azione (giudicata eccessivamente) burocratica della PA italiana siano di ostacolo a cittadini e imprese, e in prospettiva, rischiando di minacciare la buona riuscita di interventi quali Next Generation EU che l’Unione europea sosterrà finanziariamente, valutandone i risultati. È opinione diffusa che tra le azioni da mettere subito in cantiere per la ripresa post-Covid19 vi siano innovazioni che migliorino in modo significativo la funzionalità degli uffici pubblici e la qualità dei servizi. Di conseguenza, è importante considerare l’evoluzione delle riforme amministrative sin qui realizzate, per avere consapevolezza di ciò che è stato fatto ed evitare errori già commessi in passato. Vedremo se l’incarico a Mario Draghi per la formazione di un nuovo governo consentirà di concretizzare un’agenda in questa direzione.
Ambire al cambiamento
Nel nostro libro (Cavatorto e La Spina, The Politics of Public Administration Reform in Italy, Palgrave Macmillan 2020) abbiamo analizzato l’ondata più recente di “grande” riforma, promossa dal governo Renzi con la legge Madia, nonché i tentativi dei governi successivi di farne avanzare la realizzazione, di massima introducendo ulteriore nuova legislazione senza prevedere un’adeguata valutazione empirica – soprattutto ex ante – delle implicazioni organizzative e di performance dell’impianto normativo. Cosa che invece un design di policy dall’ambizione trasformativa richiederebbe. Nel caso della legge delega approvata nel 2015, un approccio più empiricamente orientato avrebbe suggerito maggiore parsimonia nella focalizzazione dell’ambito di intervento, probabilmente anticipando, magari limitando, criticità che sono poi emerse nella fase di attuazione con esiti purtroppo difficilmente recuperabili. Con ambito più circoscritto, in continuità con la riforma precedente nonostante il ricambio dei partiti al governo dopo le elezioni del 2018 (governo Conte I), la “Legge concretezza” del 2019 puntava, non con meno ambizione, a marcare nel discorso pubblico l’urgenza di intervenire sull’effettività delle azioni della PA. Tuttavia, per l’instabilità governativa e sfocature empiriche della stessa legge, anche in questo caso sono mancati i risultati prefigurati. Criticità che nel complesso giustificano lo sconforto dell’opinione pubblica e la sensazione di trovarsi di fronte ad un sistema refrattario al cambiamento. Eppure, circoli viziosi sono stati aggrediti, ad esempio nella lotta alla corruzione, anche grazie al monitoraggio sistematico, reso possibile da progressi nell’informatizzazione, di ciò che riguarda l’attività contrattuale della PA (archivi dati su prezzi, procedure, caratteristiche dei contraenti, delle opere e così via, per favorire controlli incrociati e valutazione dei processi). Certo si possono e devono compiere passi ulteriori, tra l’altro – in questo campo – per potenziare la digitalizzazione e l’interoperabilità delle banche dati. Nondimeno, una digitalizzazione della macchina pubblica che passi per la riorganizzazione del lavoro incentrata sui processi e sulle risorse umane.
I passi da compiere
Il miglioramento dei processi organizzativi interni alla PA, d’altro canto, è stato più volte tentato. Dopo l’istituzione di un’apposita autorità indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit), insieme a organismi indipendenti di valutazione (Oiv) presso le varie amministrazioni, obiettivi di accelerazione e semplificazione amministrativa si sono intrecciati con la definizione di un’esplicita politica anticorruzione, che ha coinciso con la trasformazione della Civit in Autorità Nazionale Anticorruzione (Anac). Quest’ultima ha in seguito assorbito la vigilanza sui contratti pubblici e ha di fatto rafforzato un modello italiano della prevenzione rivelatosi di autorevolezza internazionale nello scambio di pratiche e nella condivisione delle strategie di contrasto alla maladministration. Altresì rispetto ai fondi di Next Generation EU, in un quadro coerente di semplificazione, l’Anac può esercitare un ruolo importante. Al contempo, se le pubbliche amministrazioni e i comportamenti di chi vi lavora devono cambiare, è difficile che ciò avvenga quando le riforme sono vissute per lo più come decisioni imposte dall’alto. Servono momenti di confronto e condivisione (con i dipendenti pubblici, ma anche con i cittadini, il mondo della produzione, le organizzazioni degli interessi) degli intenti riformatori, così come il coinvolgimento del personale nell’attuazione delle innovazioni. Obiettivi in certa misura individuati nella progettualità del PON Governance 2014-2020.
Utilizzo dei fondi europei
Quanto agli Oiv, tali organismi sarebbero nella posizione di tenere sott’osservazione e far pesare la responsabilità dirigenziale per i risultati amministrativi. Oltretutto i loro compiti, il cui adempimento presuppone il possesso di competenze specialistiche, sono stati incrementati dal D.lgs. 74/2017, tra l’altro in relazione all’interazione con gli utenti. D’altra parte, il rapporto dei componenti degli Oiv con le amministrazioni – in particolare con i vertici politici di queste ultime, che li nominano – risulta ancora troppo stretto. Se invece gli Oiv venissero scelti da un’autorità indipendente e rispondessero direttamente ad essa, ciò li renderebbe assai più forti e capaci di agire in modo coordinato, così da favorire sull’intero territorio nazionale livelli di prestazione per categoria d’ufficio omogenei, almeno nel minimo, tra i tanti soggetti pubblici. Come discutiamo nel libro, a tale apposita autorità indipendente, potrebbero essere utilmente attribuiti poteri regolativi e sanzionatori, sostitutivi nei casi di inerzia o violazione di prescrizioni da parte di singole PA. Capacità amministrativa serve anche per realizzare gli obiettivi del Recovery Plan for Europe, che mette a disposizione degli stati risorse ingenti e chiede impegni corrispondenti. Da un lato, occorre fronteggiare gli effetti sanitari ed economici del Covid-19. Dall’altro lato, non dimentichiamo che a dicembre 2019 la Commissione europea ha lanciato il Green Deal e che tra le due linee d’azione è attesa sinergia: per ridurre i danni ambientali, per promuovere investimenti capaci di generare una crescita ecosostenibile e al servizio delle persone, per valorizzare ricerca e innovazione nei campi più diversi. Rispetto a ciò, le pubbliche amministrazioni europee non solo non possono agire da freno, ma devono svolgere un ruolo di promozione, selezione, realizzazione, nel quale finora in Italia – se ad esempio guardiamo all’esperienza dei fondi di coesione – non hanno brillato. Ecco perché un intervento incisivo su di esse è un ingrediente indispensabile della ripresa dopo lo shock pandemico.
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