La condanna di Lisa Montgomery e la pena di morte negli Usa

13 febbraio 2021
Editoriale Sostiene la corte
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La condanna a morte di Lisa Montgomery il 13 gennaio 2021 riveste una grande importanza sul piano storico poiché si è trattato della prima condanna a morte a livello federale di una donna dopo quasi 70 anni: era infatti dal 1953 (anno della condanna a morte di Ethel Rosenberg per cospirazione contro gli U.S.A., e di Bonnie Brawn Heady per il sequestro e l’omicidio del piccolo Bobby Greenlease) che non si procedeva più ad una esecuzione capitale di una donna a livello federale. Al di là della efferatezza del crimine di cui si era macchiata (l’uccisione di una donna incinta, Bobbie Jo Stinnett, ai fini del rapimento del feto), sono state soprattutto le condizioni psichiche della Montgomery, vittima di orrendi abusi fin dall’infanzia, ad avere creato polemiche sulla congruità ed appropriatezza della sanzione.

Considerando che nel caso Atkins v. Virginia del 2002 (536 U.S. 304) era stata dichiarata la incostituzionalità della pena di morte per i ritardati mentali, gli avvocati della Montgomery avevano esperito una serie di ricorsi per fare sospendere l’esecuzione, ricorsi a cui si era immediatamente opposta l’amministrazione Trump, in ossequio al programma di ripristino della pena di morte a livello federale dopo la moratoria decretata nel 2003. Peraltro, l’esecuzione della condanna capitale nella delicata fase dell’interregno tra il Presidente uscente, ed il Presidente entrante, Joe Biden, stride ancor di più se si considera che è avvenuta nello stesso momento in cui Trump decideva di graziare numerose persone a lui politicamente vicine (il discusso guru della Estrema Destra, Steve Bannon, per esempio).

La pena di morte e l’VIII Emendamento

Benché la condanna di Lisa Montgomery sia avvenuta a livello federale, la questione della pena di morte negli U.S.A. riguarda essenzialmente il livello statale, in quanto le condanne a morte a livello federale negli ultimi 50 anni si contano sulle dita delle mani. La prima questione che riguarda la pena di morte è quella della sua eventuale compatibilità (o meno) con l’VIII Emendamento (che, in virtù del XIV Emendamento è applicabile anche alla legislazione statale, non soltanto a quella federale), il quale proibisce «cruel and unusual punishments». In alcune pronunce, una minoranza di giudici della Corte Suprema ha esplicitamente affermato che la pena di morte, in quanto tale, contrasti con l’VIII Emendamento – si possono citare, per esempio, le opinions dei giudici Brennan e Marshall nel caso Furman v. Georgia del 1972 (408 U.S. 238), e la opinion del giudice Breyer nel caso Glossip v. Gross del 2015 (135 S. Ct. 2726; 192 L. Ed. 2d 761) – ma la maggioranza dei giudici – emblematica, in questo senso, è l’opinion of the Court nel caso Gregg v. Georgia del 1976 (428 U.S. 153) – non ritiene vi sia alcuna contraddizione tra la pena di morte e l’VIII Emendamento.

Questo non significa, tuttavia, che, in alcuni casi, la Corte Suprema non abbia riconosciuto un ruolo all’VIII Emendamento per quanto riguarda alcuni aspetti irragionevoli della pena di morte. Basti pensare, per esempio, alla dichiarazione di incostituzionalità della pena di morte per il reato di stupro, senza morte della vittima, quando la vittima sia una persona adulta – Cocker v. Georgia del 1977 (433 U.S. 584) – e nel caso di persona minore di età – Kennedy v. Louisiana del 2008 (554 U.S. 407). Basti pensare, inoltre, anche alle dichiarazioni di incostituzionalità della pena di morte per i minori di 16 anni – Thompson v. Oklahoma del 1988 (487 U.S. 815) –, e per i minori di 18 anni – Roper v. Simmons del 2005 (543 U.S. 551) – nonché alla già citata Atkins v. Virginia.

Qualche riflessione in prospettiva

La pena di morte, che costituisce il trait d’union tra la concezione etico-retributiva della pena e la concezione vetero-testamentaria dell’occhio per occhio, è largamente maggioritaria nell’ambito della opinione pubblica statunitense, benché sia stata abolita in alcuni Stati come Michigan e Wisconsin addirittura prima della stessa Guerra di Secessione. D’altra parte, proprio perché essa è ancora oggi maggioritaria nell’ambito della opinione pubblica, le strategie abolizioniste tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sul versante giudiziario, piuttosto che su quello politico, laddove, invece, negli altri Paesi è stato soprattutto il versante politico-legislativo quello che ha registrato i progressi più significativi (è il caso, per esempio, dell’Italia, in cui l’abolizione della pena di morte trovò attuazione per la prima volta nel Codice Zanardelli). Il principale rischio connesso ad una strategia abolizionista di tipo giurisdizionale è che l’opinione pubblica reagisca in senso opposto, ponendo le basi per un successivo overruling giurisprudenziale (questo è quanto è avvenuto, per esempio, dopo la decisione nel caso Furman).

Le prospettive di una abolizione a breve, d’altra parte, non sembrano fondate. La giurisprudenza della Corte Roberts, a differenza della oscillante giurisprudenza delle Corti Burger e Rehnquist, si può definire sostanzialmente monolitica, tanto da ritenere il sistema della iniezione letale conforme all’VIII Emendamento in più decisioni: Baze v. Rees del 2008 (553 U.S. 35), la già citata Glossip v. Gross, e Bucklew v. Precythe del 2019 (139 S. Ct. 1112; 203 L. Ed. 2d 521). In questa ottica, il recente ingresso del giudice Barrett al posto del giudice Ginsburg sembra preludere ad una modifica degli equilibri, ma in senso ancora più conservatore, con il rischio di rimettere in discussione la giurisprudenza più garantista.

L'autore

Andrea Ridolfi è Dottore di Ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni Politiche comparate presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza (XV Ciclo) nonché titolare di docenza integrativa presso la Cattedra di Diritto Costituzionale della LUISS


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