Dietro il caos l’ex raìs Kabila e il flop della dottrina Trump

25 febbraio 2021
Editoriale Open Society
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La Repubblica democratica del Congo balza alle cronache dopo l’uccisione dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci. Per comprendere ciò che accade in questo Paese martoriato, occorre partire dai fatti più recenti.

I problemi sono iniziati quando tutti speravano che sarebbero finiti, il 30 dicembre 2018, giorno delle prime elezioni democratiche della storia moderna del Paese. Dopo diciotto anni di dura e corrotta dittatura, Trump aveva imposto al presidente Joseph Kabila di non correre per il terzo mandato, minacciandolo di sanzioni vigorose. Le elezioni sono state vinte da Felix Tshisekedi, che, alleatosi segretamente con Kabila, è accusato di avere orchestrato con lui una serie di brogli elettorali. E, così, il nuovo presidente democratico è apparso subito anti-democratico e sono scoppiate le proteste popolari. Ad avere vinto le elezioni sarebbe stato Martin Fayalu, congolese dall’educazione americana, già manager della compagnia petrolifera statunitense Exxon. Il che aiuta a comprendere la sollecitudine di Trump, che, dall’elezione di Fayalu, sperava forse di trarne un vantaggio per la propria economia, visto che il Congo vanta il record di essere uno dei Paesi più ricchi di risorse al mondo con una delle popolazioni più povere. Il povero ricco Congo è un Paese che consente di fare investimenti enormi, essendo pieno di risorse non sfruttate per mancanza di attrezzature e conoscenze, di cui americani ed europei abbondano. Pieno di ardimento, Fayalu si è rivolto alla Corte costituzionale, straripante di giudici nominati dal vecchio dittatore, i quali hanno assicurato che non potrebbe esistere presidente più legittimo di quello che si è alleato con il presidente precedente. Breve: Tshisekedi è il vincitore. Il problema è che Fayalu era gradito non soltanto a Trump, ma anche alla popolazione congolese, che aveva identificato in lui il vero nemico della corruzione, a rischio di perpetuarsi indefinitamente. Per rimuovere la corruzione, Tshisekedi dovrebbe rimuovere gli uomini corrotti nominati dal suo predecessore, al quale deve il posto. È esattamente l’impegno che Fayalu aveva preso con i congolesi, a cui aveva addirittura promesso un’investigazione contro Kabila e i suoi fedeli, balzando in testa ai sondaggi di gran lunga. Persino la chiesa cattolica, che in Congo gode di notevole prestigio, si è schierata al fianco di Fayalu, dopo avere inviato l’incredibile cifra di 40,000 osservatori nel Paese a controllare il voto. Forse è anche per l’appoggio della chiesa che l’Unione Africana si è persuasa che Tshisekedi abbia vinto in modo irregolare, salvo poi riconoscere il suo governo, un po’ per paura che i disordini in Congo pongano problemi ai Paesi confinanti e un po’ perché alcuni membri dell’Unione Africana, non proprio democratici, temono di avere presto analoghi problemi con i brogli elettorali. Il finale è singolare: il 6 febbraio Tshisekedi è stato eletto presidente dell’Unione Africana per il 2021.

Il punto è che la popolazione congolese, afflitta ed affamata, non ragiona in base alla ragion di Stato e protesta, mentre il governo reprime e, quindi, morti e feriti a Kikwit e Goma. Ecco spiegata la missione Monusco dell’Onu, che, iniziata il 30 novembre 1999, non finisce mai, come i conflitti in quel Paese martoriato. La ragione per cui Kabila ha deciso di appoggiare un oppositore del suo regime, quale era Tshisekedi, è che il suo candidato ufficiale, Emmanuel Shadary, non attirava voti. Mossa astuta: oggi Kabila si gode il seggio di senatore a vita, assicurato da Tshisekedi, invece dell’investigazione giudiziaria, promessa da Fayalu. I giochi di potere restano, come il dramma dei Paesi che sognano di transitare pacificamente dalla dittatura alla democrazia. Siccome le democrazie promettono di mettere in carcere i dittatori, questi usano brogli e violenze per evitare le manette o magari la pena capitale. Nel digerire Tshisekedi, Kabila avrà forse ricordato l’impiccagione di Saddam Hussein da parte del democratico Iraq.

Questo articolo è precedentemente apparso sul Messaggero. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Alessandro Orsini è professore associato di Sociologia del terrorismo e Direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale della LUISS. È anche Research Affiliate al Center for International Studies del MIT di Boston e membro della Commissione per lo studio della radicalizzazione istituita dal Presidente del Consiglio


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