Due eroi silenziosi uniti dal coraggio
26 febbraio 2021
Per descrivere i sentimenti con cui abbiamo accolto la notizia “del vile attacco che ha colpito un convoglio internazionale nei pressi della città di Goma uccidendo l’Ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e il loro autista” potrebbero bastare le parole con cui il Presidente della Repubblica ha espresso lo “sgomento” di noi tutti. Aggiungendo poi che “la Repubblica Italiana è in lutto per questi servitori dello Stato che hanno perso la vita nell’adempimento dei loro doveri”.
Sgomento accentuato dalla circostanza che si trattava di un convoglio del Programma alimentare mondiale, che doveva portare viveri ad una delle popolazioni più povere del mondo. Sgomento per l’assurdo contrasto tra la miseria profonda di quella gente e le ricchezze di un Paese dotato di materie prime preziosissime, ma sfruttate da pochi potenti. Sgomento per il permanere degli effetti di una delle guerre etniche più sanguinose, quella tra Hutu e Tutsi, la cui efferatezza senza pari ancora ci colpisce per il coinvolgimento di bimbi resi guerrieri con la violenza e per i massacri di popolazioni inermi.
È presto per sapere chi siano stati i mandanti di questa vile aggressione, ma nulla potrà colmare il lutto evocato dal Presidente Mattarella per questi servitori dello Stato, entrambi giovani, esperti e coraggiosi.
Quel che colpisce nel curriculum di Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci è l’impegno che hanno profuso nel prepararsi ai loro compiti. Il primo, laureato alla Bocconi, entrato in diplomazia due anni dopo, impegnato in una brillante carriera che lo porta ad essere Ambasciatore in Congo, protagonista di missioni umanitarie e insignito con la moglie del premio Nassirya per la Pace. In questa breve sintesi, la storia che accomuna tanti dei nostri diplomatici, testimoni itineranti e silenziosi dei valori del nostro Paese. Chi ha avuto la possibilità di conoscerli e avvalersi della loro professionalità, come è accaduto anche a me in qualità di rappresentante dell’OSCE per la lotta alla corruzione, sa quanto il loro ruolo sia lontano da quello vuotamente formale talvolta evocato da detrattori incompetenti. Oggi le espressioni “diplomazia economica”, “diplomazia politica”, “diplomazia giuridica” sottolineano i ruoli svolti dagli Ambasciatori. Oggi abbiamo constatato come a queste doti tecniche se ne accompagni un’altra altrettanto se non più alta: il coraggio. E proprio di coraggio aveva parlato Luca Attanasio quando, nel ricevere il premio Nassiriya, aveva sottolineato che “quella dell’Ambasciatore è una missione, a volte anche pericolosa, ma abbiamo il dovere di dare l’esempio”. Un dovere che spesso viene condiviso da mogli che non solo accettano le difficoltà di una vita di frequenti trasferte, ma condividono i compiti di Ambasciata, creando legami profondi con le comunità locali. È proprio quanto accaduto per Zakia Seddiki, fondatrice dell’Associazione umanitaria “Mama Sofia” a sostegno delle donne in Africa. A questa moglie che potremo definire a pieno titolo “Ambasciatrice” e ai tre figli che avevano voluto portare con sé, nonostante la piena e dichiarata consapevolezza dei rischi che correvano, deve andare tutto il nostro rispettoso apprezzamento. Ricordiamolo a quanti hanno dipinto i diplomatici e le loro famiglie più come organizzatori di eventi mondani che come testimoni ed interpreti della civiltà dei nostri Paesi a sostegno di quelli meno fortunati.
Ad analoghi principi si è ispirata la vita del giovane carabiniere Vittorio Iacovacci, dallo scorso settembre presso l’Ambasciata italiana in Congo, in forza alla seconda Brigata mobile dell’Arma dei Carabinieri, un nucleo di élite con proiezione operativa all’estero che ha già avuto vittime proprio nell’attentato di Nassiriya e negli attacchi Talebani in Afghanistan. La sua tragica morte interpreta lo spirito con il quale i nostri Carabinieri e il nostro esercito operano nelle missioni di pace. Anche su questo vorrei offrire una personale testimonianza, avendo avuto l’occasione, nel corso di una visita ufficiale in Afghanistan nel periodo in cui iniziava una smobilitazione delle truppe internazionali di pace, di constatare l’insistenza con cui si chiedeva che la componente italiana non lasciasse il Paese. Una insistenza motivata sia dalla riconosciuta capacità dei nostri di insegnare i metodi di lotta alla corruzione e ai reati connessi al traffico di droga, sia dalla loro vicinanza umana ad un popolo tartassato da decenni di guerre. Ecco il fil rouge che unisce gli eroi silenziosi di questi drammi ai tanti interpreti quotidiani della nostra diplomazia e delle nostre missioni: merito, professionalità, senso della legalità non disgiunti da quella sensibilità umana, da quella vicinanza a popolazioni sofferenti che rappresentano un vero valore in più da apprezzare. Ecco il compito che più spesso ci dobbiamo assumere per dare voce al loro silenzioso adempimento del dovere, spiegando e diffondendo l’apprezzamento per il loro impegno.
Questo articolo è precedentemente apparso su La Stampa. Riprodotto per gentile concessione.
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