Quanto è utile studiare all’estero? Ecco perché i programmi di scambio internazionali aiutano a trovare lavoro

1 marzo 2021
Editoriale Open Society
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Il 1° gennaio 2021 la Gran Bretagna è ufficialmente uscita dall’Unione Europea e uno dei primi grandi cambiamenti riguarda il mondo universitario. Tra le rinunce provocate dalla Brexit, infatti, c’è l’addio al programma Erasmus+, attuale versione del progetto Erasmus, che più di 30 anni fa fece il suo ingresso nello scenario della formazione superiore offrendo opportunità di scambio internazionale, co-finanziato da fondi europei. Con oltre 9 milioni di persone coinvolte, tra cui 500 mila italiani, in questo trentennio il programma ha subito molte evoluzioni. Ad oggi, contribuisce alla strategia Europa 2020 per la crescita, l’occupazione, l’equità sociale e l’integrazione, nonché ai traguardi di ET2020, il quadro strategico dell’UE per l’istruzione e la formazione.

Nel contesto universitario del nostro Paese, è ormai inserito in maniera strutturale il processo dell’internazionalizzazione inteso in senso ampio, e che comprende anche e soprattutto la mobilità studentesca. È chiaro quindi che la crisi generata dal Covid-19 (e che ha investito tutti i settori dell’università) ha colpito con particolare forza i flussi di mobilità internazionale. Se, da un lato, la didattica a distanza garantisce la continuità del diritto allo studio, dall’altro vengono meno i benefits derivanti dall’esposizione al contesto internazionale. Studiare all’estero rappresenta un enorme vantaggio per i laureati di domani: si arricchisce il proprio curriculum, migliorano le competenze linguistiche e, non meno importanti, le cosiddette soft skills. Tutto ciò ha un risvolto sull’occupabilità?

Un’analisi condotta sulle coorti recenti di laureati della Luiss sembra dare una risposta affermativa a questa domanda. L’analisi è incentrata sulla Luiss come esempio di ateneo che ha fatto dell’internazionalizzazione una priorità strategica (gli accordi di partenariati stranieri coinvolgono oltre 300 Università Partner in 60 Paesi, con 46 programmi di doppia laurea ed exchange strutturate).

Nel dettaglio, la ricerca condotta dall’Ufficio Studi e Valutazione Luiss ha riguardato i laureati magistrali e magistrali a ciclo unico negli anni 2016, 2017 e 2018 intervistati ad 1 anno dal titolo e che, al momento dell’indagine, non erano impegnati in altri corsi di formazione.

Oggetto principale di analisi è stato il contributo che un’esperienza significativa di studi all’estero ha sulla probabilità di ottenere – entro un anno dalla laurea – un lavoro retribuito. In questo contesto l’esperienza significativa è certificata dall’acquisizione di almeno 12 CFU in atenei esteri (nella popolazione esaminata circa il 29%), l’avere o meno un lavoro retribuito è stato rilevato nelle interviste agli studenti svolte ad 1 anno dalla laurea.

Tabella 1. Distribuzione della variabile occupazionale vs esperienza all’estero, per anno di laurea

Anno di laurea Esperienza all’estero Attività lavorativa retribuita
No (v. %) Sì (v. %)
2016 No (n=790) 46,1% 53,9%
Sì (n=276) 30,8% 69,2%
2017 No (n=798) 32,6% 67,4%
Sì (n=319) 22,3% 77,7%
2018 No (n=731) 30,4% 69,6%
Sì (n=348) 22,7% 77,3%


La tabella mostra come le frequenze percentuali degli occupati (% di riga) siano più alte fra i laureati che hanno svolto un’esperienza all’estero, per ciascun anno di laurea considerato.

 

In un primo modello di analisi è stata indagata l’associazione tra la probabilità di trovare il primo lavoro e una serie di altre variabili tra cui la mobilità internazionale, informazioni relative alla carriera universitaria e il background familiare. Il modello cerca di determinare il contributo che ciascuna delle variabili fornisce alla probabilità di trovare il primo lavoro. I risultati dimostrano che l’aver preso parte attivamente ad un programma di studi all’estero è associato positivamente, in maniera statisticamente significativa, ad un aumento della probabilità di essere occupati (+8 punti percentuali). Tra le altre variabili analizzate, si osserva nel corso degli anni un trend in aumento nell’inserimento professionale dei laureati Luiss. Inoltre, come dimostrato in letteratura, è presente un gap di genere che vede la maggiore partecipazione degli uomini al mercato del lavoro (+3 punti percentuali) rispetto alle donne. Le variabili riguardanti il background familiare non sono risultate statisticamente significative.

Una seconda analisi è stata svolta per valutare se i vantaggi in termini di inserimento professionale possano essere attribuiti all’esperienza all’estero oppure a condizioni di partenza più favorevoli: la scelta di inserire un percorso internazionale nella propria carriera, infatti, potrebbe essere associata ad un background socioeconomico più favorevole e/o a migliori performance accademiche da parte dello studente che avrebbero comunque dato un vantaggio in termini occupazionali.

In un’ottica ipotetica, che cosa si sarebbe osservato se gli stessi soggetti nello stesso periodo non avessero preso parte ai programmi di mobilità internazionale?  A parità di condizioni, i risultati di questo secondo scenario confermano quanto già osservato. L’aver partecipato a un percorso di mobilità aumenta le probabilità di essere occupato di 9 punti percentuali. In altre parole, sembra che un datore di lavoro, nel valutare due candidati con caratteristiche simili ma che differiscono tra loro solo per la partecipazione a programmi di scambio, tenda a privilegiare chi ha arricchito il proprio cv con esperienze internazionali.

In conclusione, l’analisi ha confermato che in Luiss chi ha saputo sfruttare le molteplici opportunità di mobilità internazionale (non solo Erasmus ma anche Double Degree, Partnership strutturate, Free mover, tesi o tirocini all’estero, etc.) non si è pentito. Da un punto di vista più generale, programmi di scambio come l’Erasmus+ contribuiscono a perseguire gli obiettivi strategici dell’UE per l’istruzione e la formazione. Anche se la pandemia da Covid-19 ha imposto una rimodulazione della mobilità internazionale, le università dovranno sfruttare le nuove prospettive che stanno emergendo e tutti gli strumenti a loro disposizione, digitali e non, per mantenere salda la proiezione internazionale dell’istruzione terziaria.

L'autore

Flavia Santi lavora  all’Ufficio Studi e Valutazione dell’Università Luiss


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