Perché non è possibile tornare a Bretton Woods

5 marzo 2021
Editoriale Europe
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Un cambio di premesse

Viene quasi naturale, tra guerre commerciali in corso e turbolenze finanziarie, volgere lo sguardo al quarto di secolo compreso tra il 1944 e il 1971, quando per effetto degli accordi di Bretton Woods l’economia dei Paesi occidentali registrava una crescita economica non inferiore a quella generata più tardi dalla globalizzazione, senza però i contraccolpi di quest’ultima: disuguaglianze sociali, divari crescenti di ricchezza tra gli Stati, esplosioni di bolle finanziarie e del debito pubblico. Tornare a BW sembrerebbe la strada giusta, se soltanto fosse praticabile. Purtroppo, non si può. Perché sono state spazzate via dalla globalizzazione finanziaria le due pre-condizioni che rendevano possibile il funzionamento di questo meccanismo: da un lato il divieto di libera circolazione dei capitali speculativi, dall’altro il vincolo di fatto all’emissione di dollari da parte della Fed, ovvero il tasso di convertibilità del dollaro in oro, fissato proprio dai richiamati accordi di BW a 35 dollari l’oncia. Erano queste due precondizioni che consentivano al Fmi di assicurare la stabilità  del sistema monetario in caso di squilibri delle bilance commerciali riconoscendo allo Stato aderente con export deficitario il sostegno del Fondo tramite l’attribuzione di diritti speciali di prelievo per contrastare o mitigare la svalutazione monetaria. Ne conseguiva che gli scambi monetari erano consentiti solo come contropartita di quelli commerciali e che gli stessi costituivano la quasi totalità delle transazioni monetarie. Attualmente, nonostante la crescita esponenziale del commercio mondiale dagli anni ’70 e l’ingresso della Cina, i movimenti di capitale sottesi agli scambi commerciali rimangono tra il 5% e il 10% del totale delle transazioni monetarie globali. Il resto è formato da movimenti speculativi. In questa situazione, alcuni economisti propongono di reintrodurre il divieto di circolazione dei capitali speculativi con un accordo monetario globale che veda tutti consenzienti, ma nessuno sa esattamente come porre un freno agli spostamenti speculativi di capitale nel meta-mercato finanziario, capace di travalicare confini e giurisdizioni.

Il piano B di Keynes

Chi pensa oggi ad un nuovo sistema monetario internazionale non ha in mente un impossibile ritorno alla convertibilità in oro, quanto piuttosto il piano B presentato a BW da Keynes. La proposta del negoziatore inglese prevedeva, invece dell’aggancio all’oro, quello ad una valuta convenzionale chiamata Bancor e composta da un paniere di monete (per lui essenzialmente dollaro e sterlina) cui rapportare il cambio delle altre valute aderenti al Fmi. Rifiutato a BW, il Bancor si è preso una rivincita con Il Sistema Monetario Europeo istituito nel 1979, che ha stabilizzato i rapporti tra le monete europee prima del passaggio all’Euro sancito dal Trattato di Maastricht del 1992. Lo Sme ha garantito piuttosto bene la stabilità dei cambi fino a quando però nel 1989 la Comunità Europea ha rimosso definitivamente il divieto di libera circolazione dei capitali. La liberalizzazione dei movimenti di capitale ha travolto lo scudo dell’Ecu con lo tsunami speculativo del 1991, che ha comportato la fuoriuscita della lira dal sistema e accelerato il passaggio all’Euro. L’insegnamento che possiamo trarre dalla vicenda Sme è che, anche mettendo al centro una moneta convenzionale calcolata su un paniere multivalutario, un sistema monetario internazionale non regge l’urto delle fluttuazioni monetarie speculative se al contempo tale sistema non reintroducesse un freno efficace a tali fluttuazioni e all’incontrollata emissione monetaria da parte degli stessi Paesi aderenti in particolare del dollaro. Questo spiega il perché, per tornare ad oggi, il riconoscimento della moneta cinese da parte del Fmi e la sua inclusione tra quelle di riserva per l’emissione dei Disp, non ha avuto finora alcun effetto concreto. Incassato il riconoscimento formale del rango di moneta di riserva del Fmi, la Cina si muove in tutt’altra direzione, consolidando la propria egemonia economica finanziaria (e in prospettiva monetaria) in Asia.

Il mercato d’Oriente

Il processo di cauto allontanamento dal dollaro non coinvolge peraltro la Cina soltanto, ma anche la Russia e l’IranAd accrescere l’instabilità degli scambi monetari concorrono anche le criptovalute, a partire dal bitcoin, di recente conio. All’orizzonte non è poi da escludere una rivalutazione del renminbi sul dollaro e sull’euro a suggello di una egemonia nel commercio mondiale coronata da una possibile maggiore attrattività degli investimenti di capitali in quel sistema economico-finanziario. Una modifica dei ‘term of trade’ rispetto ai quali non possiamo farci trovare impreparati, riducendo, ad esempio, nel mercato comune europeo la dipendenza dalla componentistica, attualmente la cui produzione è stata esternalizzata a basso costo all’estero. Che fare? Per il momento non ci resta che far quadrato intorno all’euro auspicando una politica condivisa non solo monetaria, ma anche fiscale che riequilibri la bilancia dei pagamenti dall’asimmetrica esposizione verso la finanza dell’anglo sfera e dagli squilibri commerciali extra Ue in particolare verso la Cina. Occorre non tardare oltre a prendere atto che una realtà economica europea fortemente interdipendente e aperta al mercato globale necessita di una maggiore coesione economico-sociale al suo interno e di una regia comune delle variabili macroeconomiche, anche di natura non monetaria. La risposta abbastanza coordinata alla crisi pandemica, l’approccio alla Next Generation Ue e la reazione unitaria alla Brexit lasciano intravedere qualcosa in quella direzione.

Questo articolo è precedentemente apparso su Avvenire. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Professore ordinario di Diritto dell’economia presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss. Dal 2012 direttore del Centro di ricerca sulle amministrazioni pubbliche “Vittorio Bachelet” e della rivista on-line “Amministrazione In Cammino”.


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