Riporre le spade ideologiche e affrontare i nodi irrisolti della giustizia penale: oggi con Draghi l’occasione è irripetibile

6 marzo 2021
Editoriale Open Society
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 Nei giorni scorsi abbiamo assistito all’illustrazione da parte del Presidente Draghi dei punti di fondo del programma del nuovo Governo che, sul delicato fronte della giustizia, vede in primo piano la riforma della giustizia civile e la lotta alla corruzione. Il che è da salutare come un’ottima notizia, se solo si considera che la crisi del processo civile è uno dei fattori che ostacola la competitività del sistema paese. In questo quadro si colloca anche il richiamo alla corruzione che è sempre più avvertito come fenomeno in grado di minare la concorrenza leale e di incidere sulla capacità di attrarre investimenti.

Bisogna d’altronde sempre tenere a mente che il costo economico della corruzione ha rappresentato uno dei volani della riforma del 2012, la quale ha impresso un mutamento di strategia nella lotta al fenomeno, puntandosi altresì sulla leva preventiva, e ha consentito al nostro Paese di risalire le graduatorie internazionali – a partire dalla nota classifica di Transparency International, pur con i limiti e le riserve associati all’impiego di indici percepiti della corruzione.

Se la prospettiva del Governo Draghi sembra essere quella di operare le riforme che l’Unione europea ci chiede da anni, non va dimenticata la giustizia penale. Lo testimoniano i Quadri annuali di valutazione della giustizia pubblicati dalla Commissione europea: a partire dal 2013, essi individuano l’accesso a un sistema giudiziario efficiente – anche penale – come «un diritto essenziale alla base delle democrazie europee e sancito dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri».

Il tema è trasversale al diritto penale e a quello processuale, riguardando in ultima istanza il funzionamento del processo come luogo delle garanzie per tutti i protagonisti coinvolti e investendo altresì il tema della prescrizione, materia rovente nel dibattito pubblico, che dovrebbe essere depurata di valenze politiche e tornare a essere istituto che rifletta un ragionevole bilanciamento tra i fondamentali interessi contrapposti.

Negli ultimi lustri si è consumato uno scontro tra gli attori organizzati – magistratura associata e camere penali – sul processo penale e sulle sue funzioni. A partire dalla riforma in senso accusatorio del 1989, larga parte della magistratura ha vissuto il “codice dei professori” come troppo sbilanciato in favore delle garanzie dell’imputato e ha cercato di riaffermare come prioritarie le esigenze di protezione della collettività; l’avvocatura, per contro, si è prodigata nella difesa di un modello avanzato fondato sulla centralità della dialettica dibattimentale che non si è mai del tutto realizzato nella prassi. Un conflitto perpetuo che si è consumato anche nell’ultimo anno, dal tema già menzionato della prescrizione alle risposte all’emergenza pandemica, con la magistratura favorevole allo strumento del processo a distanza e l’avvocatura sulle barricate. E il risultato finale di un pericoloso ritorno alla scrittura, che sa molto di rifugio in una dimensione nota e tranquillizzante, ma anche di occasione persa per modernizzare il sistema.

Il governo del Presidente fondato sulla centralità del programma, più che su un’agenda politica, potrebbe rappresentare un’occasione unica (e forse irripetibile) per riporre le spade ideologiche e affrontare i nodi irrisolti della giustizia penale con ragionevole pragmatismo. Ossia con un pacchetto di riforme che aggrediscano con soluzioni innovative il problema dell’efficienza della giustizia penale, intesa non più come istanza contrapposta alle garanzie, ma come capacità di conseguire i molteplici scopi del processo, tra cui anche quello di protezione dell’imputato.

In quest’ottica, la durata irragionevole dei procedimenti rappresenta il sintomo più grave di una “malattia” ben più estesa. Centoventi anni fa alla Camera dei deputati Luigi Lucchini definì il rito criminale italiano “il più lento d’Europa” e, tra il 1959 e il 2020, l’Italia ha collezionato ben 1.202 delle 5.950 condanne complessive, pronunciate dalla Corte di Strasburgo per lesione del canone di ragionevole durata dei procedimenti (amministrativi, civili e penali), ossia il 20,2 per cento del totale delle stesse. Più della somma del secondo e terzo Stato della graduatoria, ossia la Turchia e la Grecia. Il doppio rispetto al complesso delle violazioni accertate nei confronti di Germania, Francia, Regno Unito e Spagna. In questo quadro si inserisce il tema della prescrizione che, nel nostro sistema, si è fatta altresì carico delle esigenze poste dalla ragionevole durata del processo. È giunto il momento di affrontare questo nodo, ripensando il funzionamento del processo, insieme a una riforma finalmente organica della prescrizione, che superi la figura patchwork che è diventata negli ultimi anni. Riforma che dovrebbe cercare di gettare luce finalmente su questo istituto anfibio e imboccare con decisione una strada chiara, valutando con razionalità ed equilibrio la percorribilità di una scissione dell’istituto che consenta di tener distinte le sue due anime, sostanziale e processuale, con le diverse ragioni a ciascuna di esse sottese.

Accanto a tale disfunzione ve ne sono molte altre, tra cui l’immane arretrato, che, nonostante i dati apparentemente non allarmanti resi pubblici durante l’apertura dell’anno giudiziario, è destinato a crescere in misura significativa nella stagione dell’emergenza pandemica; il numero enorme di impugnazioni, che allontanano il momento dell’esecuzione e impediscono alla Cassazione di esercitare la preponderante funzione di unificare la giurisprudenza; l’assenza di filtri effettivi rispetto all’esercizio dell’azione penale e la crisi profonda dei procedimenti speciali; il conseguente tasso abnorme (e crescente) di proscioglimenti, che porta gli imputati a subire una “pena processuale” tanto interminabile quanto ingiustificata; un numero elevato di prescrizioni pronunciate dopo l’inizio del processo, con il tema della posizione delle vittime; il deficit tecnologico, che impedisce di sfruttare le opportunità offerte dalle nuove forme di comunicazione a distanza e dal processo telematico, nel quadro di una digitalizzazione della giustizia invocata nel dicembre scorso dalla Commissione europea; l’alto tasso di scopertura degli uffici giudiziari e la scarsa attenzione per una adeguata allocazione delle risorse, che portano la macchina giudiziaria ad arrancare senza carburante; il problema di recuperare senso profondo alla finalità rieducativa della pena, rimedio anche rispetto a un tasso troppo elevato di recidiva.

Negli ultimi anni non è mancato il ricorso alla pena con funzioni simbolica e di risposta a presunti allarmi sociali.

La stagione che oggi si apre potrebbe rappresentare, pure su questo versante, un’occasione per invertire la rotta seguita di recente e affrontare pochi punti di rilievo.

Il primo aspetto dovrebbe riguardare le condizioni carcerarie in epoca Covid e affrontare il tema del sovraffollamento, come accaduto nella fase post Torreggiani, riprendendo il filo delle riforme interrotte, ossia pene detentive non carcerarie e istituti a carattere deflattivo, che sono stati ridimensionati o compressi per effetto di interventi normativi ispirati da logiche securitarie.

Il secondo profilo si collega a quanto appena detto e investe la possibilità, sulla scia degli ultimi moniti lanciati dalla Corte costituzionale – si pensi alla riforma della diffamazione e al ruolo delle sanzioni interdittive – di attuare interventi sul complessivo sistema sanzionatorio, all’insegna della razionalità e dell’efficienza.

Ebbene, la drammaticità della situazione e il richiamo del Presidente della Repubblica alla responsabilità possono consentire finalmente di aggredire questi (e altri) problemi, in un perimetro condiviso, caratterizzato dalla consapevolezza, propria di una democrazia matura, che la giustizia penale non è – come è accaduto per troppi anni – un luogo di battaglia politica, ma un servizio che gli operatori – magistrati, avvocati, poliziotti, cancellieri, ufficiali giudiziari – rendono ai cittadini. Siano essi imputati, vittime, testimoni, condannati o semplici componenti di una comunità i quali, oggi più di ieri, hanno un bisogno estremo di legalità.

Gli autori

Antonino Gullo è Ordinario di Diritto penale Università Luiss Guido Carli.


Mitja Gialuz è Ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Genova.  


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