Quasi amici. Tecnocratici, populisti e il laboratorio politico italiano
18 marzo 2021
Intervista a Fabrizio Tassinari
“L’Italia oggi è senza dubbio un laboratorio politico, un luogo dove assistiamo in anticipo a evoluzioni che potremmo vedere altrove in futuro. In estrema sintesi, nel nostro Paese una politica con forti connotazioni populistiche chiama in proprio soccorso la tecnocrazia, alias Mario Draghi. Allo stesso tempo la tecnocrazia, compresa quella europea, sceglie di non escludere più i populisti dalle responsabilità di governo, tentando così di guadagnare una maggiore legittimazione”. Parola di Fabrizio Tassinari, politologo, direttore esecutivo della School of Transnational Governance dello European University Institute di Fiesole e Fellow al Berggruen Institute di Los Angeles. Il professore, intervistato da Luiss Open, si dice d’accordo con lo studioso americano Nathan Gardels che, sempre su queste pagine, ha parlato dell’Italia come “protagonista del più affascinante esperimento di innovazione democratica in tutto l’Occidente”. D’altronde, l’espressione “nuovo compromesso storico” che Gardels utilizza per definire il governo Draghi è tratta dall’ultimo saggio di Tassinari “La stella polare: dispacci dal futuro del buongoverno” appena pubblicato da Rubbettino.
Populisti in cerca di soluzioni, tecnocrati in cerca di legittimazione
“Per spiegare l’attuale situazione italiana – è il ragionamento di Tassinari – occorre ovviamente tenere presente una componente opportunistico-emergenziale. Le difficoltà del quadro politico e l’enormità della sfida pandemica sono fattori che hanno spinto il sistema dei partiti ad accettare la soluzione Mario Draghi. Tuttavia c’è dell’altro. In dottrina si parla molto di ‘legittimazione degli input’ e ‘legittimazione degli output’ dei nostri sistemi politici. A livello europeo, per esempio, il cosiddetto ‘deficit democratico’ delle istituzioni comunitarie è sinonimo di scarsa ‘legittimazione degli input’. Le stesse tecnocrazie, però, hanno tradizionalmente compensato tale carenza con una ‘legittimazione degli output’, cioè con una legittimazione che arriva dai risultati dell’azione di governo. Il punto è che questo output, su vari fronti come la crisi economica e la campagna vaccinale, è stato meno soddisfacente di quanto ci si attendesse. Di conseguenza alle stesse istituzioni europee ora può essere d’aiuto una maggiore ‘legittimità degli input’, che passi in alcuni casi per il coinvolgimento di partiti populisti al governo di certi Stati membri”. Insomma in Italia stiamo sperimentando una forma di mutuo soccorso tra populismo e tecnocrazia? “Possiamo vederla esattamente così. Altrimenti come ci spiegheremmo la scelta del Movimento 5 Stelle di sostenere un governo guidato da Mario Draghi? Oppure le frasi del leader della Lega, Matteo Salvini, che ora auspica ‘soluzioni europee’ sull’immigrazione?”. Secondo Tassinari, poi, la performance poco felice dell’Unione europea sui vaccini fa vacillare la “legittimazione degli output” sul fronte tecnocratico. “La stessa Presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, ha fatto mea culpa per come è stata gestita la fase di contrattazione e approvvigionamento dei vaccini. Il che solleva due temi, certo non nuovissimi. Quando affidiamo una certa scelta ai tecnocrati, presumiamo che essi abbiano un margine di autonomia per garantire dei risultati. Ma chi li controlla e come si rimedia a eventuali errori? Oltre al tema dell’accountability, c’è poi quello della narrazione: davanti a errori gravi delle strutture tecnocratiche europee, diventa complicato sostenere che le scelte degli uffici di Bruxelles sono per definizione ‘migliori’ per il solo fatto di sopperire a carenze degli Stati nazionali. In breve: se il populismo negli ultimi anni ha dovuto rivedere le sue pretese scontrandosi con la realtà, pure le istituzioni tecnocratiche hanno mostrato al mondo i loro problemi”.
Secondo Tassinari, pure il “caso McKinsey”, appena scoppiato in Italia per una consulenza del ministero dell’Economia alla nota società del settore, induce alcune riflessioni in tema di tecnocrazia. “Prima però liberiamo il campo dalle teorie del complotto e dagli eccessi di provincialismo per una consulenza da 25mila euro per un programma di spesa da decine di miliardi di euro. Più che sul caso specifico, si impone invece una riflessione generale. La Francia ha affidato a McKinsey la sua campagna vaccinale, la Germania addirittura parte della gestione della crisi dei rifugiati nel 2016… Ciò palesa, nelle nostre democrazie evolute, una certa ‘incompetenza’ delle strutture tecniche e amministrative. Non solo: esagerando con le società di consulenza esterne, come sostiene il giurista di Yale, Daniel Markovitz, si svuotano i ministeri dello zoccolo duro in termini manageriali e perfino identitari della nostra tecnostruttura. E anche qui, se decisioni importanti vengono subappaltate a enti terzi privati, chi se ne assume le responsabilità di fronte agli elettori, soprattutto in caso di errori?”. L’aspetto dirimente, per lo studioso dello European University Institute, è che “noi solitamente ci affidiamo agli esperti sulla base del fatto che essi conoscono i dossier. Nella vulgata, infatti, ‘tecnocrazia’ è spesso sinonimo di ‘epistocrazia’. Ma sempre più dovremmo chiederci: come viene elaborata questa conoscenza? Come nasce? Da quali studi, università ed esperienze lavorative arrivano i nostri esperti? Con quali obiezioni si confrontano? Se i meccanismi di formazione della conoscenza si inceppano, infatti, la tecnocrazia può favorire conformismo e group-thinking”.
Mainstreaming del populismo o conventio ad excludendum
Torniamo alla situazione politica italiana. Lei crede davvero che, una volta domata la pandemia e superate le crisi interne a certi partiti e movimenti, il “modello Draghi” avrà vita lunga, anche oltre la fine di questa legislatura? “Per il futuro, vedo due scenari come i più probabili”, replica Tassinari. “Il primo scenario, quello che definisco ‘mainstreaming del populismo’, o ‘normalizzazione del populismo’, sarebbe figlio diretto dell’esperienza Draghi. In questo scenario, i partiti populisti, una volta al governo, scendono a patti con tecnocrazie e centristi di turno, vedendo attenutati certi loro eccessi iconoclasti. In Danimarca, Paese in cui ho lavorato a lungo, e che Draghi ha citato nel suo discorso d’insediamento alle Camere, sta succedendo qualcosa del genere. Come ha detto il Presidente del Consiglio, riferendosi alla riforma del Fisco, in Danimarca c’è un ampio ricorso a commissioni di esperti e tecnici. Dopodiché, però, un governo a guida social-democratica, quindi centrista, sta discutendo una riforma dell’immigrazione sulla base di un piano così radicale che altrove sarebbe etichettato come di ‘destra populista’. Quindi il mainstreaming è allo stesso tempo centripeto, con formazioni populiste che scendono a compromessi stando al governo, e centrifugo, con forze centriste che si adattano alla narrativa populista. Parallelamente alla ‘normalizzazione del populismo’, in questo scenario perderebbe forza la delegittimazione sistematica dei tecnici e degli esperti. Infatti, come dimostra il caso di Draghi, pure in sistemi politici con componenti populistiche maggioritarie, un tecnico dotato di credibilità può avere un diffuso consenso popolare dalla sua parte”. In questo senso, il “nuovo compromesso storico” è una convergenza fra il “mainstreaming del populismo” da un lato e la “rivalutazione della tecnocrazia” dall’altro.
“Se il compromesso fallisse, il secondo scenario possibile sarebbe una nuova ‘conventio ad excludendum’ dei partiti populisti di destra o di sinistra. Deliberatamente cercata o solo subita che fosse, tale esclusione sarebbe un atteggiamento che comunque potrebbe alimentare i consensi dei partiti populisti che, una volta messi ai margini da inedite alleanze, diventerebbero catalizzatori di ogni forma di dissenso, legittimo o meno. Dopo la ‘conventio ad excludendum’, dunque, si può arrivare facilmente a una polarizzazione estrema del campo politico, a un perenne scontro tra i Trump e i Sanders, per esempio, o tra i Bolsonaro e i Lula, sempre per rimanere all’attualità”, conclude Tassinari.
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