Il paese dei figli mai nati. Così gli squilibri demografici decideranno il futuro economico italiano
23 marzo 2021
Il prossimo 29 marzo la Luiss e l’Ambasciata del Giappone in Italia ospiteranno un seminario internazionale sulle sfide demografiche dei due Paesi, con i saluti del Direttore Generale Giovanni Lo Storto e l’intervento – fra gli altri – del Presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo. Luiss Open anticipa alcuni dei contenuti dell’intervento di Alfonso Giordano, docente di Demography and Social Challenges alla Luiss.
Tra i paesi sviluppati, l’Italia è quello che fatto registrare negli ultimi trent’anni una delle peggiori performance economiche per PIL pro-capite, produttività, tecnologia, tassi di occupazione, disparità territoriali, sociali, di genere e generazionali, che si abbina come un fotogramma gemello al suo processo di declino demografico tra i più accentuati a livello mondiale.
Questa evoluzione negativa si verifica in particolare a partire dalla chiusura della finestra demografica avvenuta proprio trent’anni fa nei ’90. Più di altri il Paese si troverà ad affrontare nei prossimi decenni un panorama demografico che impatterà negativamente sulla crescita economica. Secondo le stime dell’Istat, la popolazione residente in Italia dovrebbe aggirarsi sui 59 milioni nel 2045 e sui 54.1 milioni nel 2065, vale a dire ben 6 milioni circa in meno di oggi, un calo di circa il 10 percento. A perdere popolazione per tutto il periodo considerato sarebbe il Mezzogiorno, mentre nel Centro-nord un progressivo declino della popolazione si avrebbe soltanto dal 2045 in poi. Il che aggrava evidentemente il divario economico per un Sud-Italia sempre più invecchiato e spopolato, data l’emigrazione giovanile di ritorno.
Ciò che però va fatto rilevare non è tanto la diminuzione della popolazione nel suo complesso (e neanche la sua longevità, fatto di per sé positivo), ma il “degiovanimento” della società italiana derivante dal calo delle nascite. Il che ha meccanicamente prodotto una insufficiente quota di nuovi lavoratori, peraltro poco e male utilizzata, in una piramide dell’età in crescente invecchiamento, ma soprattutto ha causato, nel contesto di una aumentata e aumentante spesa assistenziale e pensionistica, una serie di ripercussioni negative in termini di dinamismo, innovatività e produttività economica. A ciò, va detto, si aggiunge una successione di politiche pubbliche – soprattutto ascrivibili al ventennio tra i ’70 e i ’90 – del tutto sganciate, se non in aperta contraddizione, rispetto alla realtà demografica del Paese e per questo insostenibili dal punto di vista economico e generazionale.
In altre parole, si assisterà a una popolazione non solo più esigua, ma anche connotata da una forza lavoro calante (negative ripercussioni sul fronte economico e produttivo), con sempre più anziani e meno giovani, questi ultimi con scarsa e precaria occupazione (peggioramento del rapporto lavoratori-pensionati) e con i migliori talenti che spesso lasciano il paese (depauperamento del capitale umano innovativo). Una ripresa anche sostenuta della fecondità non modificherebbe nel breve termine la situazione complessiva, non solo perché la demografia opera implacabilmente nel lungo termine, ma soprattutto perché, dato l’invecchiamento strutturale della popolazione italiana, le donne oggi fertili sono circa la metà delle cinquantenni che stanno chiudendo il loro periodo riproduttivo. Questo impoverito potenziale riproduttivo, inoltre, deve confrontarsi con uno scenario economico ristagnante e non incentivante che potrebbe subire ulteriori penalizzazioni economiche derivanti dalla pandemia da Covid-19.
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