Draghi tra regole e regolarità. Cosa è affine e cosa è diverso dai precedenti governi tecnici
27 marzo 2021
Il governo presieduto da Mario Draghi presenta elementi di continuità e di discontinuità con le precedenti esperienze di governi “tecnici”. I primi prevalgono piuttosto nettamente. Non deve trarre in inganno la retorica impiegata, a ridosso della sua formazione, dalle forze politiche, molte delle quali sono parse comprensibilmente desiderose di distanziare sin dall’inizio la vicenda di questo governo da quella, considerata a posteriori per più versi deludente, del governo Monti.
Il primo elemento di continuità è rappresentato, evidentemente, dal Presidente del Consiglio: come già nei casi di Ciampi, Dini e Monti, Mario Draghi è un soggetto “non politico”, con alle sue spalle un prestigiosissimo curriculum nelle istituzioni economiche nazionali, europee e internazionali, tra l’altro quale governatore della Banca d’Italia e poi quale presidente della Banca Centrale Europea, e mai schieratosi a favore di un partito o dell’altro.
Il secondo elemento di continuità consiste nella durata limitata. Essendosi formato dopo l’esaurirsi di due governi politici, entrambi presieduti da Giuseppe Conte e supportati da maggioranze diverse, e comunque “originali”, ossia niente affatto coincidenti con le coalizioni presentatesi agli elettori nel 2018, il governo Draghi è nato con un orizzonte temporale massimo di poco più di due anni. Un importante “tagliando” avrà senz’altro luogo dopo 12 mesi dalla sua formazione, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica: sarà quell’elezione – che, come da più parti si è notato, potrebbe portare al Quirinale lo stesso Draghi – il momento in cui si valuterà se la XVIII legislatura potrà giungere al suo naturale compimento, e, in caso, con quale governo. Dunque, per quel che si può immaginare al momento, si va verso una durata minima di un anno e massima di poco più di due anni: un po’ più del record stabilito, tra i governi “tecnici”, dal governo Monti (rimasto in carica 529 giorni; il governo Dini durò 486 giorni, il governo Ciampi 377 giorni).
In terzo luogo, pure nel caso del governo Draghi, come negli altri governi “tecnici”, l’impulso del Presidente della Repubblica è parso particolarmente evidente. Un impulso chiaro anzitutto nell’individuazione del Presidente del Consiglio, visto che l’incarico è stato subito formalizzato, una volta chiaritosi, a seguito del fallimento del mandato esplorativo conferito al Presidente della Camera Fico, che non vi erano i margini né per ripetere, né per allargare la maggioranza su cui si era retto il governo Conte 2. Senza neppure bisogno di una esplicita indicazione del nome di Draghi da parte dei partiti, nel corso di un giro ad hoc di consultazioni (anche se non è da escludere che il Presidente della Repubblica abbia prospettato una alternativa di tal tipo già nel corso delle consultazioni, nel caso di fallimento di una riedizione di un governo politico presieduto da Conte). Un impulso altresì percepibile, almeno sulla base di ciò che può intuirsi, nella determinazione dell’assetto ministeriale: non solo nella ricerca di un “alto profilo” nell’individuazione dei titolari di alcune cruciali caselle ministeriali, ma anche – più complessivamente – quanto alla fissazione del punto di equilibrio tra tecnici e politici, oltre che tra conferme e nomi nuovi.
Il quarto elemento di continuità è rinvenibile nell’ampio consenso parlamentare. Il governo Draghi ha infatti ottenuto 535 voti favorevoli alla Camera (con 56 voti contrari e 5 astenuti) e 262 voti favorevoli al Senato (con 40 voti contrari e 2 astenuti). Si può ricordare, in proposito, che il governo Ciampi registrò 309 voti favorevoli alla Camera (con ben 182 astenuti), e 162 al Senato; il governo Dini 302 voti favorevoli alla Camera (con ben 270 astenuti) e 191 al Senato; il governo Monti 556 voti favorevoli alla Camera e 281 voti favorevoli al Senato (nessun astenuto).
Un quinto elemento di continuità si può cogliere nella ragione di fondo alla base dei governi “tecnici”, consistente nella necessità di intraprendere riforme che i precedenti governi non erano stati e non parevano in grado di realizzare: la riforma elettorale in senso maggioritario, coerente con il referendum abrogativo sulla legge sull’elezione del Senato, in un contesto politico-economico tutt’altro che facile, in piena “Tangentopoli” e nell’imminenza dell’entrata in vigore del trattato di Maastricht, nel caso del governo Ciampi; ingenti operazioni di risanamento della finanza pubblica, anche mediante impopolari ma necessarie riforme del sistema pensionistico, nel caso dei governi Dini e Monti. Pure nel caso del governo Draghi si tratta ora di porre in essere riforme di significato strategico, sulle quali la precedente maggioranza, non era riuscita a trovare soddisfacenti punti di incontro: quelle richieste per poter usufruire dei fondi stanziati, dall’Unione europea, con il Next Generation EU.
Gli elementi di discontinuità rispetto al modello dei governi “tecnici” appaiono meno evidenti.
Esemplare è, da questo punto di vista, il tema della composizione, su cui da più parti si è fatto leva per sostenere la natura “tecnico-politica” del governo Draghi (tra l’altro, nel quesito posto sulla “piattaforma Rousseau”). Tra i 23 ministri che lo compongono, infatti, quelli in genere qualificati come “non politici” sono 8. Il distacco è piuttosto evidente rispetto al governo Monti e, risalendo, altresì rispetto al governo Dini, entrambi composti esclusivamente da ministri (e sottosegretari, nel secondo caso) non parlamentari.
Tuttavia, va considerato, da un lato, che una distribuzione non troppo dissimile caratterizzava anche l’originaria composizione del governo Ciampi, con 10 “non politici” su 27 ministri (una composizione che peraltro si alterò allora a poche ore dal giuramento, a seguito delle dimissioni di 4 ministri a seguito del voto della Camera sull’autorizzazione a procedere a Bettino Craxi). Dall’altro lato, il semplice conteggio dei ministri rileva abbastanza poco, dovendosi invece considerare il peso di ciascuno di essi e, soprattutto, la distribuzione dei ministri tra politici e tecnici rappresenta un elemento non decisivo, specie se considerato isolatamente, per qualificare la natura di un esecutivo. Ogni governo, com’è noto, reca in sé un equilibrio tra tecnici e politici, o meglio, tra tecnica e politica, variamente configurato a seconda delle circostanze, anche in considerazione della difficoltà che si incontra nel qualificare come politici i nomi di tecnici illustri, se eletti in Parlamento; o, viceversa, come tecnici i nomi di Ministri che magari sono stati candidati alle ultime elezioni, senza però essere stati eletti.
Ulteriori elementi di differenziazione possono cogliersi con riguardo all’orizzonte programmatico del governo Draghi: questo appare più ampio e ambizioso rispetto a quello dei precedenti governi “tecnici”, e sicuramente non caratterizzato dal respiro limitato proprio dei c.d. “caretaker governments” (o governi ad interim o “di tregua”), a cui i governi “tecnici” vengono talora sovrapposti.
A ciò si lega anche il fatto che il supporto assai ampio di cui ha goduto, nella votazione fiduciaria, il governo Draghi pare motivato da una ragione in qualche modo opposta rispetto a quella alla base del largo consenso che pure ha caratterizzato il governo Monti. Se in quest’ultimo l’idea era “tutti dentro” al fine di prendersi tutti una quota eguale (e, auspicabilmente, minima) di responsabilità per le politiche di austerità che allora andavano necessariamente perseguite, nel caso del governo Draghi vi è invece la volontà di essere tutti coinvolti nella decisione sul riparto dei fondi del Next Generation EU.
Proprio quest’ultimo elemento consente, a ben vedere, di cogliere l’elemento di fondo che pare essere alla base del ricorso, in Italia, alla formula dei governi c.d. “tecnici” e, a monte, del fallimento dei governi “politici” che li hanno preceduti. Questo è rappresentato da un rapporto non sciolto con l’Unione europea: dall’incapacità, cioè, per il sistema politico italiano di assumere autonomamente quelle decisioni “di sistema” richieste, da tempo, in sede europea e ritenute indispensabili, nel loro stesso interesse, appunto dalle istituzioni dell’Unione e dagli altri Stati membri. E, in definitiva, di muoversi in piena coerenza con quel vincolo europeo che è parte tutt’altro che marginale del quadro costituzionale vigente e che, lungi dal bypassare gli Stati membri, chiede ad essi di fornire nuove e ulteriori prestazioni.
Un vincolo, quello europeo, non adeguatamente introiettato dal sistema dei partiti e spesso neanche, purtroppo, dalle istituzioni italiane, nelle quali prevale un equilibrio tra tecnica e politica assai diverso da quello prevalente nei processi decisionali europei. Al punto che, quando si tratta di prendere decisioni-chiave a livello interno nel quadro di più complessi “procedimenti euro-nazionali”, l’indirizzo politico italiano rischia di rivelarsi del tutto inadeguato e va sostituito con l’intervento di governi guidati, non a caso, da figure per definizione più in linea con le indicazioni concordate in sede europea con i metodi decisionali lì adottati.
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