È davvero possibile invertire la rotta demografica italiana? Ecco le ragioni per essere ottimisti

28 marzo 2021
Editoriale Open Society
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  Il prossimo 29 marzo la Luiss e l’Ambasciata del Giappone in Italia ospiteranno un seminario internazionale sulle sfide demografiche dei due Paesi, con i saluti del Direttore Generale Giovanni Lo Storto e l’intervento – fra gli altri – del Presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo. Luiss Open anticipa alcuni dei contenuti dell’intervento di Maria Rita Testa, docente di Demografia alla Luiss.

I dati sull’andamento demografico italiano, lo sappiamo, descrivono un Paese con squilibri crescenti nella sua popolazione. Bassissima natalità e intenso invecchiamento, le caratteristiche principali. La pandemia da Covid-19 rischia di aggravare simili squilibri: nel 2020 abbiamo avuto il numero più basso di neonati nella storia recente del nostro Paese, poco più di 400.000, a fronte del numero più alto di decessi – oltre 700.000 – anche a causa della pandemia. Detto ciò, non mancano – perfino in questo scenario – alcuni elementi per non cadere vittime del catastrofismo. Partiamo dal grafico qui sotto:

Questo grafico raffigura il “gap” tra la fecondità desiderata dalle coppie e la fecondità effettiva delle stesse in alcuni Paesi occidentali. La posizione dell’Italia nell’angolo in fondo a destra vuol dire, in parole semplici, che siamo il Paese sviluppato in cui è maggiore la distanza tra il numero di figli che le giovani coppie desidererebbero avere (più di 2) e il numero di figli che le stesse coppie effettivamente hanno (meno di 1,3). Detto altrimenti: se non ci fossero ostacoli di sorta, in Italia ci avvicineremmo al tasso di fecondità necessario a mantenere una popolazione stabile anche in assenza di immigrazione, pari a 2,1 figli per donna. Perché c’è da essere ottimisti? L’esistenza di questo gap conferma che non ci troviamo ancora nella cosiddetta “trappola della fecondità”, cioè una situazione – questa sì disperante – in cui i giovani semplicemente non desiderano avere figli. Invece il modello normativo, quello cui aspiriamo in media come Italiani, è al momento una famiglia con due figli o più. Si tratta quindi di intervenire quanto prima perché questo “fertility gap” si riduca. Se esso si riducesse, la nostra popolazione tenderebbe verso un equilibrio demografico.

Ma quante possibilità ci sono di ridurre questo gap? Finora, effettivamente, la classe dirigente italiana non ha riservato sufficiente attenzione al tema demografico, e questo ha ridotto la possibilità di ipotizzare e magari testare policy appropriate. Anche in questo caso, però, si può provare a guardare al proverbiale “bicchiere mezzo pieno”. Provo a spiegare perché. Secondo dati Eurostat appena pubblicati, nel 2019 nell’Unione europea sono nati 4,17 milioni di bambini, in calo costante dal 2008 quando i neonati furono 4,68 milioni. Allo stesso tempo il tasso di fecondità medio è 1,53 in tutta l’Unione europea, distante dal 2,1 necessario per avere una popolazione stabile. Se questo è il contesto, la scelta della Commissione europea di intitolare un programma straordinario di aiuti per la ripresa economica alle future generazioni, come avvenuto con “Next Generation Eu”, vuol dire che abbiamo ancora a cuore il futuro di chi verrà dopo di noi…

Certo, in questo momento storico c’è chi potrebbe obiettare al mio ottimismo di fondo puntando il dito sull’effetto “paura” o sull’effetto “shock economico” legati alla pandemia, e al loro impatto negativo sulle nascite. Tuttavia simili effetti – che si potranno leggere nei dati delle serie storiche tra qualche decennio – potrebbero essere congiunturali e transitori, a cui magari farà seguito un sentimento di “rinnovato ottimismo” non appena il ciclo si invertirà e assisteremo pure a una ripresa economica. Di fatto andò proprio così all’indomani della Seconda Guerra mondiale. Insomma, nemmeno la pandemia ci dovrebbe condannare al pessimismo.

Le caratteristiche di politiche demografiche di successo

Intendiamoci, non esistono soluzioni semplici in campo demografico. Un bonus o un assegno in più difficilmente ci convincono ad avere un figlio o una figlia in più. Ma prima dell’attuale pandemia esistevano modelli – pur diversi fra loro – che avevano una qualche efficacia nel mantenere il tasso di fecondità vicino alla soglia di 2,1. Parlo dei modelli francese e scandinavi, per esempio. Senza entrare nei dettagli dei singoli sistemi, questi modelli di intervento pubblico hanno alcune caratteristiche comuni. Primo: sono massicci in quanto a risorse investite. Secondo: durano da tempo, non sono una tantum. Questi due fattori ne rafforzano la credibilità agli occhi delle giovani coppie. Terzo fattore decisivo: in Francia e nei Paesi scandinavi abbiamo “pacchetti di misure”, cioè insiemi complessi di policy, in grado quindi di intercettare più facilmente diversi gruppi sociali. L’universo delle donne e delle coppie infatti, nella società contemporanea, è molto variegato. Lo spiego con un esempio. Una donna manager potrebbe non trarre nessun giovamento, o quasi, da un incentivo monetario tipo “bonus bebè”, potrebbe preferire piuttosto – per perseguire legittimi obiettivi di carriera – che la sua azienda abbia un nido aziendale dove portare il figlio. Lo Stato, se si impegnasse solo sul fronte dei bonus, dimenticherebbe di incentivare le aziende ad aver servizi per l’infanzia.

In definitiva, credo che ci troviamo in un momento storico in cui sarebbe possibile agire per invertire la rotta demografica del Paese. Più di politiche specificamente indirizzate alla natalità, però, servirebbe un insieme di provvedimenti che infondano ai giovani un po’ di ottimismo, che premino – dal mercato del lavoro alla ricerca della casa – chi in questo Paese si prende qualche rischio in più. Ricordo infatti che dietro la bassa natalità ci sono sicuramente motivi economici, come la difficoltà a trovare lavoro, ma non possiamo ignorare l’esistenza di motivi anche culturali, come la presunzione di avere tutto sotto controllo prima di decidere di avere un figlio o un figlio in più. L’illusione del “controllo totale” rischia di essere, nei fatti, paralizzante.

Limiti e insegnamenti dal caso giapponese

Perché analizzare in chiave comparata Italia e Giappone? Non soltanto perché sono i due Paesi più anziani del pianeta. In Giappone infatti, proprio come in Italia, la popolazione complessiva sta diminuendo da anni nonostante i flussi migratori, per esempio. All’inizio del 2021 si calcola che ci fossero 125,5 milioni di Giapponesi, in significativo calo dal picco di 128 milioni raggiunto nel 2010. Inoltre anche in Giappone la pandemia sembra aver avuto un impatto negativo sugli equilibri demografici: secondo alcune prime stime, la popolazione del Paese nel 2020 si sarebbe ridotta di 420.000 persone rispetto a un anno prima. Per la prima volta, nel 2020, le nascite potrebbero scendere sotto quota 800.000, facendo peggio del precedente record più basso, le 865.000 nascite del 2019.

Insomma, il Giappone non ha trovato la ricetta magica per rilanciare le nascite. Però Tokyo ha dimostrato, per esempio, che certi squilibri causati dall’invecchiamento e dalla riduzione della forza lavoro possono essere risolti anche perseguendo l’equità di genere. Il governo giapponese, negli ultimi anni, ha dispiegato la cosiddetta “Womenomics”, per ridurre i gap salariali e di opportunità di lavoro tra uomini e donne. I risultati sono arrivati eccome. Secondo i dati Eurostat, in Italia nel 2005 lavoravano 48,5 donne ogni 100 di età compresa fra i 20 e i 64 anni, mentre nel 2019 siamo arrivati a 53,8. Nello stesso arco di tempo, il Giappone è passato da 61,7 donne al lavoro su 100 in quella fascia d’età a 75 donne su 100. Un incremento molto maggiore di quello italiano, e anche di quello europeo o americano. L’effetto positivo sulla natalità giapponese non si è materializzato, ma questo dipende pure da eccessive rigidità su orari e organizzazione del lavoro, oltre che da altri motivi culturali legati ai ruoli tradizionali della donna e dell’uomo. Tuttavia, almeno sul fronte dell’occupazione, in Italia abbiamo la possibilità di imitare Tokyo e abbiamo ampi margini di miglioramento. Un altro motivo per non abbandonarci al catastrofismo.

L'autore

Maria Rita Testa è Professoressa di Demografia al Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss


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