La partita degli eurobond nella nuova Europa di Draghi
4 aprile 2021
Nelle prime settimane di vita il ritmo del governo è stato dettato dall’esigenza di limitare l’impatto sanitario ed economico dell’epidemia. Mario Draghi ha faticato ad imprimere il cambio di passo che molti attendevano ed è spesso apparso invischiato in trattative per soddisfare i soci della sua eterogenea maggioranza. Questo non è sorprendente. Il contesto lascia poche alternative alle misure sanitarie di contenimento e al sostegno per le categorie più colpite. Anche sui vaccini il nuovo commissario si è trovato, come quello che lo ha preceduto, a fare i conti con i limiti nelle forniture. L’esecutivo ha fondamentalmente agito in continuità con il precedente governo (e con quelli degli altri paesi europei).
Su queste colonne qualche settimana fa argomentavo che l’ex presidente della Bce avrebbe dovuto concentrarsi, con benefici evidenti anche e soprattutto per il nostro paese, sul rilancio del processo di riforma europeo. Al Consiglio europeo di giovedì scorso, riallacciandosi al suo discorso di insediamento, Draghi ha auspicato che l’eurozona prendendo esempio dagli Stati Uniti si doti di una capacità di bilancio autonoma, e ha rilanciato gli eurobond, titoli emessi (e soprattutto garantiti) congiuntamente da utilizzare per programmi di spesa comune o per trasferimenti agli Stati membri.
Degli eurobond si parla dai primi anni Novanta, quando li propose l’allora presidente della Commissione Jacques Delors. Grazie alla garanzia congiunta gli eurobond sarebbero considerati dai mercati un attivo sicuro (un safe asset). Questo consentirebbe di emetterli a tassi molto bassi: I paesi più indebitati e con una reputazione meno solida potrebbero quindi finanziarsi a tassi inferiori a quelli che otterrebbero individualmente. È quello che vedremo con il Recovery Fund, che è una delle possibili modalità di emissione di titoli congiunti.
Per paesi come il nostro i vantaggi dell’introduzione di un debito congiunto, di una mutualizzazione del rischio, sarebbero evidenti. Oltre al già richiamato risparmio di interessi, un titolo di debito europeo, per definizione sicuro perché garantito congiuntamente, consentirebbe di rompere finalmente il doom loop tra bilanci pubblici e bancari: ricordiamo che durante la crisi finanziaria globale del 2008 le banche in difficoltà furono salvate dai rispettivi governi, che così facendo videro il loro debito levitare. Ma il deterioramento dei bilanci pubblici aveva ridotto la qualità del debito, posseduto in larga parte dalle banche stesse, che si erano quindi trovate ad aver bisogno di nuovi salvataggi pubblici; questa spirale ha indebolito il settore finanziario anche durante la successiva ripresa; ad oggi essa è stata più o meno faticosamente arginata, ma non ancora disinnescata. Un titolo comune e sicuro potrebbe essere detenuto dalle banche per ridurre la rischiosità del proprio portafoglio e usato come collaterale quando si finanziano reciprocamente o si indebitano presso la banca centrale, riducendo di molto il problema del doom loop.
Infine, ma non da ultimo, l’emissione di eurobond consentirebbe di migliorare l’efficacia della politica monetaria e dei mercati dei capitali europei. La Bce potrebbe effettuare i propri acquisti di titoli affrancandosi dalle quote predefinite di titoli nazionali che ne limitano la flessibilità e l’efficacia. Infine, i mercati dei capitali potrebbero giovarsi dell’esistenza di un safe asset, che, come i buoni del tesoro americani, potrebbe costituire un attivo di riferimento per la zona euro nel suo insieme. Questo darebbe un impulso importante al completamento dell’unione dei capitali che non a caso Mario Draghi ha richiamato come urgente giovedì scorso. A questi fini sarebbe anche auspicabile che l’introduzione di titoli comuni fosse accompagnata da un’agenzia europea del debito per facilitare la relazione tra governi e mercati.
La proposta di eurobond ha fino ad oggi incontrato l’ostilità dei paesi rigoristi. In primo luogo, c’è il timore che la mutualizzazione del debito sia un incentivo per ulteriore irresponsabilità da parte di alcuni governi che potrebbero fare correre il deficit senza temere un aumento dei tassi di interessi (quello che gli economisti chiamano azzardo morale). Poi, il tasso di interesse del debito congiunto sarebbe più elevato di quello che questi paesi riuscirebbero ad ottenere sul mercato (oggi, ad esempio, la Commissione si indebita a tassi superiori a quelli tedeschi).
Ma per paesi come la Germania gli eurobond non presenterebbero solo costi. In primo luogo, l’accresciuta stabilità ed efficienza dei mercati finanziari facilitata dall’introduzione di titoli di debito, avrebbe ovvi vantaggi anche per imprese e consumatori dei paesi del nord. Mercati finanziari più liquidi, robusti e funzionali faciliterebbero inoltre a medio termine la normalizzazione della politica della Bce, auspicata proprio dai rigoristi che ancora influenzano il dibattito di politica economica in quei paesi. Infine, un safe asset con rendimenti bassi ma positivi sarebbe un’ottima notizia per i risparmiatori tedeschi e non solo. I rendimenti negativi dei Bund di cui sono imbottiti i bilanci di compagnie assicurative, banche e fondi pensione tedeschi, sono una bomba ad orologeria che mina alle fondamenta la solidità del sistema finanziario tedesco.
Fino ad oggi il dibattito pubblico tedesco è stato dominato da coloro che temevano i costi economici della mutualizzazione del rischio e non si fidavano dei governi “irresponsabili” della periferia dell’eurozona. Con la crisi del Covid la loro posizione si è tuttavia indebolita (i negoziati che hanno portato al programma Next Generation EU stanno lì a dimostrarlo). In primo luogo, perché la solidarietà in Europa non è oggi questione di virtù cristiane ma di sopravvivenza della moneta unica. In secondo luogo, perché la lotta per l’egemonia tra Stati Uniti e Cina rende pone problemi ai nostri paesi esportatori e rende la stabilità del mercato europeo più importante di prima. Per questo nel dibattito tedesco sono sempre più forti le voci di coloro che spingono per l’introduzione di strumenti volti a rendere le finanze pubbliche e i mercati finanziari più sostenibili e favorevoli alla crescita della domanda domestica.
Insomma, nei paesi del Nord si fa strada l’idea che accettare l’istituzione di un debito comune che affianchi quelli nazionali non sarebbe solo una questione di solidarietà. Esso costituirebbe uno dei pilastri di un sistema finanziario più integrato e più efficiente, con benefici per tutta l’eurozona. Facendoci intravedere il vecchio SuperMario, Draghi ha scelto il momento buono per rimettere gli eurobond al centro dell’agenda politica europea.
Questo articolo è precedentemente apparso su Domani. Riprodotto per gentile concessione.
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