A favore della costituzione di parte civile nel Sistema 231

6 aprile 2021
Editoriale Sostiene la corte
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Un recente intervento del Procuratore aggiunto di Milano, dr. Eugenio Fusco, sollecita il legislatore a consentire la soddisfazione delle pretese risarcitorie dell’offeso dal reato anche quando si celebra un processo a carico dell’ente cui è addebitata la responsabilità da reato di cui al d. lgs. n. 231 del 2001 (“Costituzione di parte civile nel «giudizio 231»: un vuoto di tutela che deve essere colmato”, in Sole 24 Ore del 29 marzo).

A dire il vero, la costituzione di parte civile non risulta espressamente esclusa dal menzionato decreto. Per quasi un decennio la giurisprudenza di merito si è divisa fra due orientamenti, uno a favore a l’altro contrario ad ammettere l’esercizio davanti al giudice penale dell’azione civile vantata dal danneggiato del reato nei confronti dell’ente sottoposto a procedimento penale. Successivamente, nel 2010, la Corte di Cassazione ha stabilito che il d. lgs. n. 231 del 2001 non prevede la possibilità per il danneggiato dal reato di costituirsi parte civile (Cass., Sez. VI, 3 ottobre 2010, n. 2251, Fenu). Questa sentenza ha così individuato la regola vigente, orientando le successive pronunce dei giudici di merito.

Ciò è stato possibile perché il d. lgs. n. 231 coinvolge la giurisprudenza nella costruzione della regola processuale stabilendo, da un lato, che il procedimento penale nei confronti dell’ente è regolato, oltre che dagli articoli stabiliti nel decreto stesso, dalle norme del codice di procedura penale in quanto compatibili (art. 34); dall’altro, che all’ente sottoposto a procedimento penale sono riconosciute le stesse garanzie attribuite all’imputato dal codice di procedura penale, sempre che queste ultime risultino compatibili con il procedimento a carico degli enti (art. 35). In altre parole, sulla base degli artt. 34 e 35 d. lgs. n. 231/2001 sono i giudici a stabilire, a seconda dell’esito del vaglio di compatibilità, quali regole del codice di procedura debbano essere applicate e quali no; quali garanzie difensive sono da riconoscere all’ente e quali no.

Nonostante la tendenziale generale adesione dei “pratici” e di autorevole dottrina alla interpretazione della Corte di Cassazione che ritiene inammissibile la costituzione di parte civile nel procedimento penale de societate, tale orientamento non risulta convincente.

Predicare l’inapplicabilità di una norma del codice di procedura penale nel procedimento penale de societate è consentito solo se è lo stesso d. lgs. n 231/2001 a stabilire una norma speciale di contenuto diverso da quello della corrispondente norma codificata; oppure quando l’applicazione di una certa previsione non è compatibile con il procedimento a carico dell’ente.

Esclusivamente alla stregua di tale criterio, e non di nessun altro, vanno individuate le norme del codice di procedura applicabili e quelle inapplicabili.

Così stando le cose, per escludere l’ammissibilità della costituzione di parte civile occorrerebbe individuare le ragioni che rendono incompatibile nel procedimento a carico degli enti la relativa disciplina stabilita nel codice di procedura penale. Ma non ve ne sono. Al contrario, a favore dell’ammissibilità della costituzione della parte civile depone la prevista formalizzazione del ruolo del danneggiato in una molteplicità di contesti disciplinati dal d. lgs. n. 231/2001 (artt. 12, 17 e 19, oltre che 49 e 78). Più precisamente, il d. lgs. n. 231 prevede: una riduzione della sanzione pecuniaria se il danno patrimoniale è di particolare tenuità ovvero se l’ente «ha risarcito integralmente il danno» (art. 12); l’esclusione delle sanzioni interdittive quando l’ente ha risarcito integralmente il danno (art. 17); l’esclusione della confisca per la parte di prezzo o profitto del reato che può essere restituita al danneggiato (art. 19); l’esperibilità delle condotte riparatorie di cui all’art. 17 sia nel procedimento cautelare per l’applicazione delle sanzioni inderdittive, sia successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di condanna pronunciata a carico dell’ente (artt. 49, 50 e 78).

Insomma, l’adempimento da parte dell’ente degli obblighi civilistici di natura aquiliana conseguenti alla commissione del reato rappresenta uno dei pilastri del “sistema 231”, nella prospettiva di stimolare in tempi brevi il recupero dell’ente a una prospettiva di legalità.

Alla luce di ciò, deve escludersi nella maniera più assoluta che le norme del codice di procedura penale relative all’esercizio dell’azione civile nel processo penale possano essere ritenute inapplicabili all’ente in quanto “non compatibili” ai sensi dell’art. 34.

Piuttosto che formulare auspici al legislatore, sarebbe preferibile che gli interpreti – e dunque in primis i giudici, ma anche gli avvocati e i pubblici ministeri – superassero le incongruenze della soluzione prospettata dalla Corte di Cassazione, propiziando così il mutamento di quella interpretazione.

Il silenzio del d. lgs. n. 231 del 2001, di per sé, non è mai significativo, perché l’intero codice di procedura penale costituisce il ‘diritto comune’ della procedura penale degli enti. Spetta all’interprete desumere dal sistema il significato del silenzio che, nel caso della costituzione di parte civile, può agevolmente essere inteso quale implicito rinvio alle norme codificate.

L'autore

Maria Lucia Di Bitonto è professore associato di Diritto processuale penale all’Università di Camerino e insegna Diritto processuale penale e Diritto e procedura penale degli enti al Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss, oltre ad essere coordinatore dell’Osservatorio sulla legalità d’impresa.


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