Danone, il cambio al vertice non è dipeso solo dai corsi azionari

13 aprile 2021
Editoriale Entrepreneurship
FacebookFacebook MessengerTwitterLinkedInWhatsAppEmail

In questi giorni si è diffusa la notizia che Danone, multinazionale del settore alimentare, taglierà entro l’anno 1.850 posti di lavoro in tutto il mondo. Per alcuni si tratterebbe dell’ennesima conferma che nel gruppo francese il profitto è tornato a essere l’unica indiscutibile bussola, dopo la rimozione a metà marzo dell’amministratore delegato Emmanuel Faber, fautore di una stagione manageriale particolarmente attenta alla sostenibilità ambientale e alla responsabilità sociale. Sbaglierebbe, però, chi sancisse frettolosamente la vittoria dell’etica del solo profitto ai danni di un capitalismo più attento a tutti gli stakeholder coinvolti.

I fatti, prima di tutto. I tagli di cui si ha notizia in queste ore sono un po’ più contenuti di quelli già previsti dallo stesso Faber alla fine dello scorso anno. Inoltre la fuoriuscita del manager dall’azienda merita una riflessione ponderata. Un gruppo di fondi attivisti (Artisan Partners e Bluebell Capital Partners, in possesso del 6% del capitale di Danone) ha lanciato un attacco che ha portato alla rimozione di Faber, accusato di “non avere trovato il giusto equilibrio tra creazione di valore per gli azionisti e sostenibilità”.

Danone effettivamente rappresentava un potenziale target per i fondi attivisti. Tali fondi attaccano imprese che hanno una governance debole e performance non ottimali. Il loro obiettivo è sostituire il management, rafforzare la governance e migliorare la performance azionaria. Non appena poi il valore azionario sale, liquidano il loro investimento conseguendo un capital gain di breve periodo.

La performance azionaria di Danone fino alla fine del 2019 è stata di fatto allineata a quella di imprese similari (come Unilever e Nestlè), poi ha iniziato a divergere – e non di poco – con un calo di circa il 30% nel corso dell’ultimo anno. Vari motivi spiegano la perdita di competitività nei confronti dei concorrenti: la differente composizione settoriale (Danone non vende prodotti per l’igiene, Unilever sì), i risultati negativi del business dell’acqua imbottigliata (la pandemia da COVID-19 ha ridimensionato il canale della ristorazione) e della divisione prodotti per bambini in Cina (per il decremento delle nascite e lo spostamento dei consumi verso prodotti locali), l’aumento dei costi di trasporto e delle materie prime.

Inoltre, con riferimento alla governance, Faber era amministratore delegato dal 2014 e presidente del consiglio di amministrazione dal 2015. L’unione dei due ruoli è una pratica sempre più invisa agli investitori perché alloca un potere eccessivo a una sola persona. Dopo vari tentennamenti, Faber aveva accettato di rimanere come presidente cedendo la posizione di amministratore delegato. Tuttavia i cambiamenti proposti da Faber – la nomina di un ex manager come vice presidente e di un consigliere a lui vicino come lead independent director – sono stati interpretati come il tentativo di continuare a governare la società dalla sua posizione di presidente, intaccando ulteriormente il sostegno degli investitori di lungo termine nei suoi confronti.

Lo Stakeholder Capitalism di Danone rimane comunque un tratto distintivo del gruppo fondato da Antoine Riboud. Faber – che succedeva a Franck Riboud (figlio di Antoine) al vertice dell’impresa – lo aveva sviluppato e portato a compimento. In particolare, aveva affinato la visione di Danone (“One planet, one health”) per indicare che la salute delle persone e del pianeta sono inscindibilmente legate. Aveva ottenuto l’approvazione dell’assemblea per trasformare Danone nella prima società quotata francese benefit (enterprise à mission), rendicontato l’impatto finanziario delle emissioni di CO2 sul profitto (carbon adjusted EPS) e ridotto significativamente l’utilizzo della plastica. Una strategia che era – e rimane – in linea con le richieste degli investitori o con quanto dichiarano altre imprese. I grandi investitori istituzionali – si pensi alle ultime lettere di Larry Fink (CEO di Black Rock, il più grande investitore del mondo) – o gli amministratori delegati delle grandi imprese americane (si legga il New statement on the purpose of a corporation pubblicato dal Business Roundtable), infatti, promuovono da tempo un capitalismo sostenibile e orientato agli stakeholder.

La sostituzione di Faber ai vertici di Danone, dunque, non è sinonimo di un ritorno dell’etica dei puri profitti, ma la dimostrazione che la transizione verso un capitalismo più responsabile, pur già in atto, deve essere supportata dallo sviluppo di nuovi ed efficienti modelli di governance. Non a caso numerosi accademici e addetti ai lavori hanno iniziato a proporre diversi strumenti per gestire le imprese in un’ottica stakeholder, per misurare il valore creato a favore di stakeholder e ambiente, per garantire l’accountability dei manager verso i risultati economici, sociali e ambientali raggiunti. La sfida non è più se privilegiare i profitti o gli stakeholder, ma come governare e gestire al meglio imprese che perseguono il successo sostenibile.

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

Tag

L'autore

Alessandro Zattoni è Direttore del Dipartimento di Impresa e Management dell’Università Luiss


Website
Newsletter