Il sofà che divide l’Unione europa

14 aprile 2021
Editoriale Europe
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Ciò che è avvenuto martedì scorso ad Ankara ha poco a che fare con la Turchia e molto con l’Unione europea (Ue). In visita ufficiale al governo turco, l’Ue si è presentata con due presidenti (il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen), perché entrambi possono avere una voce sul piano della sua rappresentanza internazionale. Una cosa non facile da capire all’esterno. Tant’è che il governo turco, seguendo il protocollo, ha fatto sedere il presidente del Consiglio europeo nella sedia regale vicino al presidente Recep Tayyip Erdoğan, relegando la presidente della Commissione europea in un sofà. Apriti cielo. Eppure, invece di denunciare l’antieuropeismo e l’antifemminismo del presidente turco (indiscutibili), sarebbe meglio capire perché l’Ue si è fatta di nuovo umiliare.

L’Ue è un’organizzazione che non ha mai definito sé stessa. Per alcuni leader nazionali, essa è poco più di un’organizzazione internazionale che persegue obiettivi principalmente economici. Come altre organizzazioni di cooperazione economica regionale (si pensi alla Cooperazione economica asiatico-pacifica o APEC oppure all’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico o ASEAN), l’Ue non ha bisogno di avere una sua voce unitaria nelle relazioni internazionali, in quanto essa è garantita dal coordinamento dei governi nazionali (che avviene all’interno del Consiglio europeo), oppure da singoli governi nazionali, assistiti (se necessario) dalla Commissione europea intesa come segretariato tecnico. Per i leader sovranazionali, invece, l’Ue è molto di più di un’organizzazione internazionale, rappresentando un “nuovo ordine legale” che, in settori cruciali come il commercio internazionale, dispone (attraverso la Commissione europea) di una sua “sovranità”, ovvero di una capacità decisionale indipendente dai governi nazionali. Chi ha ragione?

Abituata a spazzare sotto il tappetto i problemi politici che non riesce a risolvere, l’Ue è ricorsa al solito formalismo. Con il Trattato di Lisbona del 2009, ha trasformato il Consiglio europeo (dei capi di governo nazionali) in un esecutivo collegiale, guidato da un presidente eletto dai suoi membri per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta. Precisando, quindi, che tale presidente ha il compito di assicurare “al suo livello e in tale veste, la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune” (Trattato sull’Unione Europea, TUE, Art. 15.6). Nello stesso tempo, però, il Trattato ha confermato il ruolo di organo esecutivo della Commissione, ribadendo (ad esempio) che spetta ad essa la gestione delle politiche commerciali o degli aiuti internazionali. Inoltre, alla Commissione continuano a rivolgersi i governi nazionali quando debbono affrontare compiti che potrebbero dividerli, come la negoziazione con la Turchia relativamente alla gestione dei rifugiati siriani. Ecco perché, ad Ankara, c’erano sia Charles Michel che Ursula von der Leyen. Sul tavolo vi erano temi come la sicurezza nel Mediterraneo e il ruolo che il governo turco sta svolgendo nell’area (di pertinenza di Michel), ma anche temi negoziali (di pertinenza di von der Leyen) come il sostegno finanziario al governo turco (altri 6 miliardi di euro) e una politica dei visti favorevole ai cittadini turchi (che vogliono cercare lavoro nell’Ue) in cambio dell’impegno a trattenere in Turchia  3,7 milioni di rifugiati siriani (il cui numero peraltro cresce con le nuove nascite, 500.000 dal 2016). Non solamente è discutibile la scelta di affidare al governo turco la protezione delle frontiere europee, ma come si fa a distinguere (in un negoziato) il tema della sicurezza (di pertinenza di Michel) e il tema degli aiuti (di pertinenza di von der Leyen)?

L’Ue non è l’unica organizzazione ad avere un esecutivo duale. In un contesto istituzionalmente diverso, anche la Francia ce l’ha, con un presidente della repubblica eletto direttamente dai cittadini e un primo ministro che gode della fiducia della camera popolare del parlamento. Certamente, tale Giano bifronte ha creato non pochi problemi a quel Paese, in particolare quando il presidente e il primo ministro rappresentavano maggioranze politiche diverse. Tuttavia, la prassi costituzionale, rafforzata dalle riforme istituzionali introdotte nel 2000 e 2002, ha riconosciuto al presidente della repubblica il compito esclusivo di rappresentare la Francia nelle relazioni internazionali. Il problema di Bruxelles non è il dualismo dei presidenti europei, bensì l’assenza di un’unica struttura esecutiva al cui interno definire i loro ruoli e compiti.

Insomma, ad Ankara si è vista la debolezza europea. L’Ue, prigioniera di un’introversione che le impedisce di vedere il mondo e la sua struttura di poteri, finisce regolarmente per essere banalizzata, ogni volta che si rapporta con esso. Oggi dal presidente turco Recep Erdoğan, ieri dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov (che accusò l’Ue di essere “un partner inaffidabile” durante la visita a Mosca di Josep Borrell il 5 febbraio scorso), prima ancora da Boris Johnson che non voleva riconoscerle il tradizionale status diplomatico. L’Ue ritiene di poter fare a meno di un “governo”, con il risultato che non ha una politica estera e incontra difficoltà nella politica interna. Con una pandemia in corso, non sarebbe stato meglio che i due presidenti si fossero accordati, in modo che uno rimanesse a Bruxelles per raddrizzare una politica vaccinale sconclusionata e l’altro andasse ad Ankara per parlare con una voce unica e decisa a chi sa ascoltare solamente le ragioni della forza?

 

Questo articolo è precedentemente apparso sul Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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