Come può funzionare l’aliquota minima globale sulle multinazionali

15 aprile 2021
Editoriale Open Society
FacebookFacebook MessengerTwitterLinkedInWhatsAppEmail

I primi mesi di vita dell’amministrazione Biden hanno stupito per accelerazioni improvvise e per proposte radicali. Molti si sono accapigliati sulla dimensione dello stimolo, con i trilioni che volteggiavano nell’aria. Ma a nostro avviso la radicalità della “Bidenomics” non sta tanto nella quantità, ma nella qualità delle misure di cui si discute. Se andranno in porto le misure proposte nelle scorse settimane dalla ministra del Tesoro Janet Yellen, assisteremo ad una svolta epocale nella tassazione delle imprese e lotta ai paradisi fiscali.

La proposta di finanziare investimenti in infrastrutture per 2000 miliardi di dollari all’interno del American Jobs Plan quasi interamente tramite un aumento dell’aliquota dell’ imposta sui redditi delle società dal 21% al 28% è accompagnato dalla proposta di una aliquota minima globale sui profitti esteri delle multinazionali al 21%. Questo si somma al piano di salvataggio già votato dal Congresso nel segnalare un chiaro cambiamento di prospettiva: la correzione delle disuguaglianze e un sistema fiscale più giusto sono la priorità della nuova amministrazione americana.

La teoria dello “sgocciolamento” (trickle down), per cui la riduzione di tasse su redditi elevati e capitale finirebbe per generare crescita e portare benefici anche ai più poveri, è da decenni sistematicamente smentita dai dati. Tuttavia, essa ha avuto recentemente molti sostenitori, da Donald Trump a Emmanuel Macron, ispirandone le riforme fiscali. Lo “sgocciolamento” si salda con l’idea che la riduzione delle imposte consenta di attirare talenti e attività economica, aumentando la competitività. Sono queste convinzioni che hanno portato molti paesi a cercare di inseguire i paradisi fiscali sul loro terreno, lanciandosi nella corsa alla riduzione delle imposte sulle società: tra il 1980 e il 2020 l’aliquota media globale dell’imposta sulle società è calata dal 46% al 26%.

Il problema è che la concorrenza tra stati non è come la concorrenza tra imprese. La riduzione delle tasse porta con sé una minore capacità di sostenere l’economia (per esempio con manovre keynesiane) e di finanziare la protezione sociale. Per una piccola economia aperta che prospera sul commercio internazionale questo non è un problema insormontabile. Per paesi più grandi, per cui la domanda interna ha un ruolo importante, ridurre la capacità di azione dello Stato elimina un importante fattore di stabilizzazione, contribuisce a mettere pressione sulle finanze pubbliche e ad aumentare disuguaglianza e sfiducia riguardo alla cosa pubblica. I grandi paesi, quindi, sono perdenti qualunque cosa facciano; che si lancino o meno nel dumping fiscale vedranno ridursi le entrate fiscali e saranno costretti a tagliare la protezione sociale. Gabriel Zucman ha stimato che l’elusione fiscale costa ai paesi di tutto il mondo più di 200 miliardi di dollari all’anno in minori entrate; per l’Italia l’equivalente del 15% del gettito totale derivante dalle imposte sulle società (gran parte del quale, peraltro, a favore dei paradisi fiscali nostrani, in primo piano l’Irlanda e l’Olanda).

La corsa al dumping fiscale ha anche distorto la concorrenza. Da un lato, avvantaggiando le grandi multinazionali che contrariamente alle piccole e medie imprese domestiche possono facilmente “far viaggiare” i profitti tra diverse giurisdizioni (un problema particolarmente sentito nel nostro paese). Più in generale, il dumping fiscale riduce la concorrenza alla sola dimensione della riduzione dei costi. Proprio Janet Yellen, presentando il suo piano, ha nei giorni scorsi twittato che “Scegliendo [in passato] di competere sulle tasse, abbiamo trascurato di competere in base all’abilità dei nostri lavoratori e alla forza della nostra infrastruttura. È una competizione autolesionista e né io né il presidente Biden siamo più interessati a parteciparvi.”

Insomma, il coordinamento delle politiche fiscali consentirebbe di mettere fine ad un far west nel quale perdono quasi tutti a beneficio di qualche paradiso fiscale e delle grandi multinazionali che oggi non pagano praticamente nessuna imposta.

In sede OCSE si lavora dal 2013 su un sistema di coordinamento delle politiche fiscali basato su due pilastri: il primo pilastro modifica il meccanismo di ripartizione di utili tra paesi assoggettando una parte degli utili globali delle grandi multinazionali (non solo digitali) nel paese in cui risiedono i consumatori finali dei prodotti/servizi della multinazionale. Nei giorni scorsi l’amministrazione Biden ha rilanciato la discussione proponendo di applicare questa formula solo alle 100 aziende più grandi e con elevato margine di profitto, ma l’efficacia di una tale misura sta nei dettagli del meccanismo di imputazione, su cui siamo molto lontani da un accordo. Ci sarà quindi modo di riparlarne. Il secondo pilastro è invece l’introduzione di un tasso minimo effettivo di imposizione, che fermi la corsa al ribasso e il dumping fiscale. Si noti che oggi solamente 3 dei paesi G20 hanno un’aliquota nominale più bassa del 21% (Russia e Arabia Saudita) proposto da Janet Yellen e che uno di questi, il Regno Unito ha recentemente annunciato l’intenzione di aumentare l’aliquota al 25% a partire dal 2023.

Come funzionerebbe l’aliquota minima? Prendiamo il caso di una multinazionale italiana che opera in Irlanda, dove è tassata al 12,5%. L’Italia esigerebbe da quell’impresa imposte pari all’8,5% dei profitti dichiarati in Irlanda, vale a dire la differenza tra il 21% e il 12,5%. In questo modo verrebbero ridotti gli incentivi a spostare profitti (o la sede fiscale) dall’Italia verso i paesi a fiscalità agevolata, e l’elusione delle multinazionali sarebbe di molto ridotta.  Le multinazionali residenti nei paesi del G20 producono più del 90% dei profitti globali e un accordo in quella sede garantirebbe una tassazione effettiva di almeno al 21% su questi profitti. Per l’Italia si stima che il gettito fiscale recuperato sarebbe intorno ai 7-8 miliardi di euro all’anno.

Gli Stati Uniti si apprestano ad introdurre un’aliquota minima del 21% sugli utili esteri delle multinazionali statunitensi. Oggi premono perché altri paesi adottino la stessa politica, e perché l’aliquota minima sia fissata al livello comune del 21% da loro proposto. Questo accordo potrebbe vedere la luce a luglio, proprio sotto la presidenza italiana del G20. Il governo spagnolo si è già espresso a favore della proposta del governo statunitense e una “coalizione dei volenterosi” sta prendendo forma. Francia e Germania hanno espresso in passato supporto per questa misura, che permetterebbe a questi due paesi di continuare a mantenere le loro aliquote (del 31% e 30% rispettivamente) limitando la perdita di gettito fiscale in favore dei paradisi fiscali. Lo stesso vale per l’Italia, con l’attuale aliquota IRES del 24% (a cui si aggiunge l’IRAP).

Per il governo italiano l’opportunità è dunque di prendere due piccioni con una fava, aumentando le risorse a propria disposizione e intestandosi, da presidente del G20, la riforma. L’elusione fiscale che ha ridotto le capacità degli stati di affrontare problemi globali, dalla pandemia al cambiamento climatico per finire alle diseguaglianze, riducendo inoltre la fiducia nel contratto sociale.

Con la pandemia e con il cambio di amministrazione americano sembra che ci si sia finalmente accorti che il dumping fiscale non genera crescita. L’accordo sull’aliquota minima potrebbe rappresentare il primo importante tassello di una riforma del sistema di tassazione globale.

 

Questo articolo è già apparso in forma ridotta su Domani. Riprodotto per gentile concessione.

Gli autori

Francesco Saraceno è membro del consiglio scientifico della Luiss School of European Political Economy e Direttore del Dipartimento di Ricerca dell’OFCE Sciences-Po di Parigi.


Website

Tommaso Faccio è Head of Secretariat all’ICRICT e docente di Economia Aziendale alla Nottingham University Business School  


Newsletter