Il rilancio della giustizia civile. Tutte le ragioni per cui una riforma è urgente

22 aprile 2021
Editoriale Sostiene la corte
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Il Parlamento sta per discutere gli emendamenti al d.d.l. n. 1662, Bonafede, atto rispetto al quale il nuovo Governo non ha ancora assunto una posizione chiara; sebbene si fosse parlato di un “maxiemendamento” contenente consistenti modifiche al disegno originario, ancora non si ha notizia delle intenzioni del nuovo esecutivo.

L’atteggiamento guardingo di molti è del resto pienamente giustificato. Per “rilanciare” la giustizia civile col giusto passo – senza inseguire le pallide chimere della “degiurisdizionalizzazione”, che pure occupano uno spazio consistente nel d.d.l. Bonafede – occorre anzitutto fornire ai magistrati strumenti adeguati. Le attuali risorse, coi mezzi disponibili, non possono favorire un’inversione di rotta nell’amministrazione della giustizia civile. È la macchina, l’organizzazione di base a dover ripartire.

Occorre aumentare il numero dei giudici civili, diminuire il carico di ruolo di ciascun giudice. È questa la prima e vera misura urgente che non può più essere rinviata. Il problema che ci ha portati sull’orlo del baratro non è legato alla redazione di questa o quella norma processuale, ma esclusivamente alla mole del contenzioso riversato sul singolo giudice. Ogni giudice civile è stato ed è letteralmente schiacciato dal peso del contenzioso che dovrebbe gestire dinamicamente, e che invece lo paralizza. Ogni giudice è ormai portato a vedere il suo “ruolo” come una macchina che, vivendo di vita propria, non si riesce a dominare.

Per intervenire sul problema occorre investire ingenti risorse economiche. Una congrua parte di queste risorse deve essere impiegata per la magistratura onoraria, alla quale non può riconoscersi il ruolo pensato dal precedente Ministro Orlando, “padre” del decreto legislativo 13 luglio 2017, n. 116, che dobbiamo sperare non trovi mai attuazione. La magistratura onoraria non è, infatti, la forza servente di quella togata: è parte integrante della magistratura ordinaria, con tutte le garanzie anche costituzionali che il nostro ordinamento giudiziario le riserva. Il rapporto tra magistrati togati e magistrati onorari va, quindi, totalmente ripensato: sul presupposto realistico che senza l’apporto degli onorari la giustizia civile, ora come ora, non può funzionare.

Si tende, peraltro, a intervenire con “misure urgenti” sulle norme del processo (e così sul momento patologico della crisi del diritto) e non sulle norme sostanziali (il momento fisiologico della vita del diritto) che, pure, spesso favoriscono per la loro oscurità o ambiguità l’insorgere dei conflitti. Molte controversie seriali potrebbero essere evitate se, in sede sostanziale, vi fosse maggiore chiarezza sulle reciproche posizioni delle parti, sui reciproci doveri e diritti. Troppe volte si sente ripetere che una certa normativa è oscura ma che potrà essere chiarita dall’interpretazione giurisprudenziale: in tal modo si scaricano sui giudici scelte che non competono loro (il “diritto giurisprudenziale” che integra la disciplina sostanziale, e che sembra fenomeno inarrestabile), scelte che aggravano le loro già problematiche possibilità di intervento nella fase di crisi di quegli stessi rapporti.

Si parla spesso dell’ufficio del giudice come dell’unica soluzione possibile (anche di qui l’utilizzo della magistratura onoraria nell’ufficio del giudice togato, equivoco alla base della disciplina del d.lgs. n. 116/2017). Ben venga l’ufficio, preferibilmente con la partecipazione di brillanti giovani laureati; ma ad esso deve corrispondere una maggiore responsabilizzazione: attualmente, lasciato in completa solitudine, il giudice civile pensa di dover rispondere soltanto per sé stesso e soltanto per gli adempimenti che a lui sono personalmente rimessi (e che potrebbero essergli contestati in sede disciplinare). Il giudice civile, come tutte le vittime, ha un atteggiamento difensivo, non propositivo. Ciò determina il suo isolamento rispetto alla struttura che lo ospita, senza mai fare di lui la componente decisiva per la sua efficienza. Se il giudice civile è il primo a non chiedersi quale sia lo scopo ultimo della sua attività, quando potrà essere disponibile alle parti il suo provvedimento, in che termini di tempo dovrà provvedere perché il suo intervento sia davvero utile per incidere nella realtà controversa, quale concreta utilità chi è ricorso alla giustizia potrà ricavare da quell’intervento, quale concreta possibilità di attuazione potrà avere il provvedimento adottato nella sede della cognizione, è giocoforza che la sua attività non potrà essere da altri considerata in termini di efficienza.

Al contrario, l’ufficio del giudice deve prendersi carico di tutto ciò che avviene nel processo, dall’iscrizione della causa a ruolo fino alla pubblicazione della sentenza. Il giudice non può disinteressarsi del pratico funzionamento della struttura nella quale egli è inserito, soltanto perché non è chiamato a rispondere disciplinarmente di determinati adempimenti “che non gli competono”. Egli deve invece ragionare nell’ottica della parte a cui favore è reso il servizio, e in quest’ottica hanno la stessa importanza vuoi lo studio teorico del problema di diritto dalla cui risoluzione dipende la decisione della causa, vuoi l’adempimento pratico connesso, ad es., alla pubblicazione e comunicazione della sentenza alle parti. L’insieme di queste attività dev’essere seguito dall’ufficio del giudice, senza poter distinguere le questioni “teoriche” (di cui sinora s’è occupato il giudice in splendida solitudine) da quelle “pratiche” (di cui sinora s’è occupata la cancelleria senza pensare di doverne mai rispondere al giudice).

Le misure organizzative sono di certo le più urgenti (lo sono diventate per incuria e anomia), ma ciò non toglie che anche le regole del processo siano suscettibili di auspicabili, penetranti interventi.,Il più grave difetto dell’attuale giudizio di cognizione di primo grado è quello di essere rigido e massificato, concepito come un modello fisso e immutabile a prescindere dal suo oggetto concreto; calibrato sulle esigenze di cause enormemente complesse e perciò bisognose di trattazioni estremamente articolate. Nell’attuale contesto ogni trattazione diventa una faticosa e spesso stucchevole ripetizione di scritti, un inutile monumento al già detto; gli adempimenti più importanti dell’intero giudizio sono di necessità rinviati a sedi ad esso esterne (specie ora, in tempi di pandemia), mentre la stessa prima udienza dinanzi all’istruttore (che dovrebbe essere il principale snodo del processo: come l’accettazione nel pronto soccorso dell’ospedale) è spesso un luogo dove nulla viene deciso se non l’assegnazione di termini per lo svolgimento di attività da compiersi fuori dal processo.

Occorrerebbe invece qualcosa di più leggero, plasmabile, adattabile alle esigenze del singolo caso concreto, e così indirizzabile verso modalità adeguate (e diversificate) di applicazione dei princìpi di contraddittorio e difesa. La legge processuale che regola la fase introduttiva del giudizio, purtroppo, è divenuta un dispositivo rigido, ingessato, costrittivo, che richiama un rispetto autoreferenziale di regole anche quando di esse non si avverte alcuna necessità. L’attuale art. 183 c.p.c., nell’interpretazione corrente, afferma il “diritto” di una parte di decidere – magari contro il parere dell’altra e quello del giudice – che la fase introduttiva del giudizio di ordinaria cognizione debba obbligatoriamente dipanarsi mediante lo scambio di ben quattro atti scritti prima che il giudice possa accostarsi alle questioni istruttorie. Si tratta di una regola semplicemente illogica, che non può favorire né l’ordinata trattazione di tutti i giudizi, né la loro definizione in tempi ragionevoli. Una trattazione così pesante e dispendiosa dovrebbe essere decisa volta per volta dal giudice, a ragion veduta distinguendo caso da caso, ovvero richiesta congiuntamente dalle parti; ma è semplicemente inaccettabile – specie considerando che nel processo civile c’è sempre – o comunque assai spesso – una parte che vorrebbe correre e un’altra che ha invece interesse a rallentare – che uno solo dei litiganti sia posto in condizioni di decidere discrezionalmente, al di fuori di ogni controllo, quale debba essere l’andamento del processo.

Accanto a misure che incidano sulle strutture, e che sono le più urgenti, quindi, occorrono anche interventi sul codice di procedura; ma, a differenza di quanto s’è fatto finora, questi interventi non debbono introdurre nuove complicazioni appesantendo il lessico di norme divenute, di rimaneggiamento in rimaneggiamento, dei veri labirinti di parole, di termini, di espressioni a volte contraddittorie. Norme che facilitano la commissione di errori, delle parti come del giudice. In una notissima lettera del 30 ottobre 1840 indirizzata a Honoré de Balzac, Stendhal affermava: «mentre scrivevo la Certosa, per prendere il tono, leggevo ogni mattina due o tre pagine del codice civile, allo scopo di essere sempre naturale; non voglio catturare il lettore con mezzi artificiali». Possiamo certamente escludere che Stendhal avrebbe potuto, oggi, “prendere il tono” leggendo le norme processuali di più recente introduzione: esse hanno, infatti, smarrito qualsiasi chiarezza, ottatività, chiara precettività e – lo diciamo a rischio di sembrare troppo esigenti – eleganza. Per il lettore che voglia sperimentare direttamente, consiglio la lettura degli artt. 183, 492 e 499 c.p.c.; anche un non tecnico è in condizioni di giudicarne la pessima fattura, l’uso scorretto della lingua italiana, la dannosa duplicazione di concetti che sono il prodromo di gravi questioni interpretative e applicative. Si tratta di norme-sceneggiatura, che vorrebbero descrivere nel dettaglio le attività processuali e che spesso si traducono in una comica previsione pantomimica di eventi che non possono ripetersi sempre uguali per l’intero contenzioso civile.

Le norme processuali debbono essere riportate a chiarezza ma anche a essenzialità; previsioni di dettaglio debbono essere evitate, perché gli operatori – che sono tutti dei professionisti – quali destinatari elettivi di queste norme debbono essere in condizioni di applicarle con ragionevolezza, duttilità, adattandole alle particolarità dei singoli casi. Faccio un esempio banalissimo: l’art. 101 c.p.c. afferma in generale che il nostro processo è ispirato al principio del contraddittorio; a fronte di questa norma, di generalissima applicazione, diventa pura superfetazione la previsione, in altri luoghi del codice, di termini e contro-termini per la realizzazione, in concreto, del principio del contraddittorio rispetto a una determinata attività del processo. Regolare il contraddittorio in forma dettagliata in rapporto a una attività, e non ad altra, può far sorgere delicati problemi interpretativi; e, in ogni caso, può essere considerato una manifestazione di sfiducia del legislatore nella capacità degli interpreti di ben intendere e ben applicare il principio del contraddittorio che deve informare tutte le attività del processo, e non solo talune.

Va preso atto dell’irragionevolezza di quanto sinora realizzato dal legislatore che ha finito, coi suoi continui e insipienti interventi sul codice di procedura, per aggravare lo stato di crisi della giustizia civile. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: legge processuale complicata, malintesa e inapplicata, giudici civili abbandonati a loro stessi, utilizzazione incontrollata di magistrature onorarie in forte predicato di incostituzionalità (esemplare la recente vicenda degli aggregati in Corte d’appello), fughe dalla giustizia ordinaria verso sedi in cui molto difficilmente i diritti dei cittadini potranno essere adeguatamente tutelati secondo gli standard costituzionali, valorizzazione esagerata della sentenza di primo grado (da chiunque pronunciata) e svalorizzazione ingiustificata di tutte le impugnazioni. Scoraggiamento, respingimento, sanzioni. Il tutto a costi sempre più alti. Se non si opera un deciso cambio di passo, presto non resterà molto della tutela civile dei diritti.

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L'autore

Bruno Capponi è professore Ordinario di Diritto processuale civile presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Luiss


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