Il voto tedesco e i nuovi equilibri in Europa

28 aprile 2021
Editoriale Europe
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Il prossimo 26 settembre si terranno le elezioni federali in Germania. Si tratta di elezioni importanti perché ciò che avviene in quel Paese ha conseguenze inevitabili sugli altri Paesi e soprattutto sull’Unione europea (Ue). Ma sono importanti anche perché Angela Merkel ha deciso di non ricandidarsi al ruolo di cancelliera, ruolo che ha assolto per ben quattro mandati consecutivi (dal 2005). Di qui, l’incertezza su come la nuova leadership intenderà esercitare il potere tedesco in Europa. Meno incertezza c’è invece su come quel potere è stato esercitato finora.

Non vi è nessuno che possa mettere in discussione la statura e l’integrità di Angela Merkel. In passaggi cruciali e critici della recente storia tedesca ed europea, Angela Merkel ha esercitato un ruolo fondamentale. Si deve alla sua leadership l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009, dopo la bocciatura del Trattato costituzionale nei referendum francese e olandese del 2005; oppure la de-nuclearizzazione della Germania, dopo il disastro nucleare a Fukushima nel 2011; oppure la decisione di accogliere nel suo Paese più di un milione di rifugiati provenienti dalla Siria nel 2015, dopo l’esplosione della guerra civile in quel Paese.  Si trattò di scelte contrastate e contestate che, tuttavia, Angela Merkel difese con ostinazione luterana e conoscenza dei problemi. Nonostante ciò, vi è un consenso tra gli studiosi (commentato recentemente da Constanze Stelzenmüller) che la sua leadership non sia comparabile a quella esercitata da Konrad Adenauer con la sua Westbindung (l’ancoraggio post-bellico del Paese all’occidente) o da Willy Brandt con la sua Ostpolitik (la riappacificazione della Germania con i Paesi dell’est europeo dei primi anni Settanta) o da Helmut Kohl con la sua decisione di rinunciare al deutsche mark (come prezzo da pagare per realizzare la riunificazione tedesca nel 1990). Nei suoi sedici anni di governo, Angela Merkel si è dimostrata una formidabile risolutrice di problemi di breve periodo, ma disinteressata ai progetti di medio periodo. Se si accetta la distinzione tra leadership transattiva (che difende l’esistente) e leadership trasformativa (che cambia l’esistente), elaborata da James MacGregor Burns nel 1965, si può dire che Angela Merkel ha esercitato la prima ma non la seconda.

Nella crisi dell’euro all’inizio del decennio scorso (con il relativo sostegno alle scelte dell’allora presidente della Banca centrale europea Mario Draghi) o nella crisi pandemica all’inizio di questo decennio, Angela Merkel è intervenuta solamente quando la situazione rischiava di andare fuori controllo. Priva di una concezione politica del proprio ruolo, le sue scelte sono state motivate dalla difesa o promozione degli interessi economici della Germania, a prescindere dalle loro conseguenze più generali. Conseguenze positive, quando Merkel si oppose al fallimento finanziario della Grecia nel 2015 o quando si schierò l’anno scorso con la coalizione guidata da Francia e Italia per affrontare la pandemia emettendo eurobond. Meno positive, invece, quando ha difeso il progetto di pipeline Nord Stream 2 o ha accelerato la firma dell’EUChina Comprehensive Agreement on Investment (progetti che rafforzano gli interessi geo-politici di Russia e Cina).

Andrew Moravcsik direbbe: cosa c’è di male in tutto ciò? Nulla, naturalmente, se si assume che la Germania, in Europa, sia un Paese come tutti gli altri. Ma la Germania non è un Paese come tutti gli altri, per le sue dimensioni demografiche (più di 83 milioni di abitanti) e per la forza asimmetrica del suo potere economico. Nelle relazioni internazionali, il potere asimmetrico è compatibile con la democrazia quando è esercitato da una potenza egemonica. Una potenza si definisce egemonica quando ha la capacità di promuovere i propri interessi favorendo nello stesso tempo gli interessi legittimi degli altri Paesi-partner. Così hanno fatto gli Stati Uniti, dalla fine della Seconda guerra mondiale, attraverso il sistema multilaterale (militare ed economico). Per John Ruggie, l’egemone, per diventare tale, deve però disporre di una cultura liberale, così da perseguire una politica flessibile nei metodi ma rigorosa nei fini. E’ tale cultura politica che manca in Germania. Quest’ultima ha maturato una radicata diffidenza verso un tratto distintivo della politica democratica, la discrezionalità per adattarsi ai cambiamenti non previsti e per ricomporre i conflitti inattesi. Per proteggersi dal suo passato, la Germania si è costruita una corazza normativa, costituzionalizzando buona parte del processo politico (e deliberativo) interno. Una cultura simile non può costruire l’egemonia necessaria per giustificare democraticamente l’esercizio di un potere asimmetrico all’interno dell’Ue. Per questo motivo, dovrebbe essere interesse della Germania, per preservare sé stessa, favorire la riforma del contesto europeo in cui il suo potere asimmetrico viene esercitato separando (e non fondendo) Berlino (e le altre capitali) e Bruxelles. Un potere asimmetrico senza giustificazione egemonica finisce prima o poi per distruggere sé stesso e gli altri.

Questa è la sfida che la leadership che emergerà dalle elezioni tedesche del prossimo settembre dovrebbe affrontare. Gli spitzenkandidaten che sono stati scelti in questi giorni (Armin Laschet per i Cristiano-democratici e Annalena Baerback per i Verdi) o che verranno presto indicati (Olaf Scholz per i socialdemocratici) dovrebbero ricordarsi che ancora non è stata trovata una soluzione stabile alla “questione tedesca”. Ovvero, come riconoscere alla Germania il suo potere senza che l’Europa ne venga dominata.

Questo articolo è precedentemente apparso su Il Sole 24 Ore. Riprodotto per gentile concessione.

L'autore

Sergio Fabbrini è professore di Scienza politica e Relazioni internazionali e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss. È anche Pierre Keller Professor presso la Harvard Kennedy School. 


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