Perché Salvini alza la posta

30 aprile 2021
Editoriale Focus Ripresa
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L’«impolitico» governo Draghi è nato con due compiti principali: gestire il piano vaccinale, e più in generale la sfida pandemica, e predisporre il piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). A meno di tre mesi dalla nascita dell’esecutivo la spinta emergenziale e, appunto, «impolitica» di queste due missioni sta già perdendo forza. E inevitabilmente riemerge allora la partigianeria, con tanta maggior energia quanto più è stata compressa nell’ultimo anno. Da ultimo, com’è noto, sull’orario del coprifuoco.

Il coperchio che la pandemia ha messo sulla politica si sta allentando per due motivi. Il primo e più ovvio è che cominciamo finalmente a intravedere, o quanto meno sognare, il ritorno a una normalità relativa. Il secondo è che su lockdown e vaccini la discontinuità fra Draghi e Conte, benché tutt’altro che inesistente, è stata tuttavia modesta. Questo doppio meccanismo disincentiva i partiti – soprattutto quelli che con Conte erano all’opposizione – dal subordinare i propri interessi a quelli del governo. Quanto al PNRR, sebbene la sua realizzazione sia destinata a impegnare il Paese per anni, dev’essere definito fra una settimana. E quando sarà stato presentato il carattere di «necessità bipartisan» del governo Draghi potrebbe indebolirsi ulteriormente.

Già ho detto che la linea di continuità relativa fra Conte e Draghi è destinata a irritare i partiti che erano all’opposizione di quello e governano ora con questo. Ma c’è pure un’altra ragione, più generale, per cui la tensione fra il carattere «impolitico» dell’attuale esecutivo e la politica non può che condensarsi soprattutto in Salvini. Dalle elezioni europee del 2019 in avanti, il leader della Lega è stato il fulcro della politica italiana. Lo spazio pubblico si è diviso fra chi era con lui e chi contro di lui. A tal punto che il secondo governo Conte è nato e si è retto precariamente in piedi proprio perché era considerato l’ultimo baluardo prima del suo trionfo elettorale. E che ancora oggi è proprio all’ex ministro dell’interno che guarda il neosegretario democratico Enrico Letta, è a lui – o meglio, contro di lui – che si appoggia per rafforzare l’identità del proprio partito e della propria coalizione.

Conservare questa posizione di centralità politica fino al prossimo voto, così da incassarne infine i dividendi, è l’obiettivo del leader leghista. Ma il passare del tempo, una strategia propagandistica dispendiosa della quale l’opinione pubblica tende a stancarsi presto, la difficoltà di far politica in una pandemia, la concorrenza di Giorgia Meloni rappresentano ostacoli di non poco conto. È possibile allora, come spesso si dice, che Salvini abbia deciso di entrare nel governo Draghi soprattutto perché gli interessi produttivi dell’Italia settentrionale, ossia l’anima della Lega incarnata piuttosto da Giancarlo Giorgetti o Luca Zaia, lo hanno spinto in quella direzione. Ma una volta tornato in maggioranza, quali che ne siano stati i motivi, non può che mettere questa posizione al servizio della sua strategia di recupero della centralità politica.

Per certi versi potrebbe perfino essere stata una fortuna per il governo Draghi che le regioni, incluse quelle governate dal Partito democratico, si siano schierate a favore dello spostamento del coprifuoco alle ventitré. Perché la presenza di una frattura istituzionale attenua il carattere politico del conflitto. Ciò non toglie tuttavia che il punto interrogativo sul futuro di questo esecutivo e di questa maggioranza «impolitici» stia crescendo di dimensioni. Se come tutti ci auguriamo la pandemia comincerà ad allentare la presa, e via via che il PNRR prenderà forma, la politica avrà sempre meno ragioni per contenere la propria conflittualità. E dall’elezione del nuovo Capo dello Stato ci separano ancora dieci mesi.

Questo articolo è precedentemente apparso su La Stampa. Riprodotto per gentile concessione.

 

L'autore

Giovanni Orsina è il Direttore della Luiss School of Government


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