La Forza del Meno. Non sempre aggiungere equivale a migliorare
5 maggio 2021
agL’idea di innovazione intesa come combinazione di arti note e arti nuove è fortemente radicata nella ricerca accademica e nella pratica organizzativa: la distruzione creatrice idealizzata dall’imprenditore schumpeteriano si poggiava sull’abilità dello stesso di combinare mezzi di produzione ovvero di creare nuove forme organizzative; Steve Jobs sottolineava l’importanza del collegamento di puntini esistenti. Si innova collegando componenti e conoscenze già in essere attraverso nuove combinazioni – le cosiddette innovazioni architetturali che definiscono il modo in cui gli elementi interagiscono tra loro – ovvero nuove componenti e conoscenze con vecchie combinazioni. Le innovazioni architetturali possono anche rendere componenti esistenti non ottimali e innescare lo sviluppo di nuovi componenti più performanti.
Il velcro – sistema di chiusura uncino e asola – è un caso emblematico di una nuova combinazione di componenti esistenti. Alla metà del Novecento, l’ingegnere svizzero Georges De Mestral, di ritorno da una passeggiata in campagna, si accorse che alla sua giacca di velluto si erano attaccati dei fiori. L’analisi al microscopio evidenziò che i calici dei fiori avevano degli uncini minuscoli che si erano incastrati sulle asole formate dai peli del morbido velluto della giacca. Questo momento di serendipità spinse De Mestral a progettare il sistema di chiusura prima con il cotone, successivamente utilizzando il più resistente nylon. Lo stesso termine velcro nasce dalla combinazione delle parole francesi velours, velluto, e crochet, uncino.
Le virtù della combinazione si riflettono anche nell’organizzazione dei processi innovativi. Già alla fine degli anni ’60, il progetto SAPPHO – uno dei primi studi empirici sull’innovazione industriale – aveva sottolineato l’importanza di organizzare team multidisciplinari per lo sviluppo di nuovi prodotti: la diversità e ricchezza di prospettive, l’eterogeneità dei domini disciplinari, e le competenze non correlate, aumentavano la probabilità di sviluppare innovazioni originali e di successo. La virtuosità della combinazione si fonda sul fatto che – se opportunamente organizzati – i membri dei team superano la tendenza a sminuire possibili opportunità di nuove ricombinazioni e quindi danno spazio all’esplorazione combinativa.
La nozione di combinazione virtuosa di elementi è inoltre alla base del metodo del foodpairing: il metodo di abbinamento alimentare che identifica le combinazioni degli ingredienti partendo dal loro profilo chimico che ne determina alcune importanti sensazioni, es. odori (per le molecole che possono legare i recettori olfattivi) e i sapori (per le molecole che stimolano le papille gustative). Il metodo si basa sul principio che gli alimenti si combinano virtuosamente quando condividono componenti aromatiche chiave. Il foodpairing ispira chef e buongustai per elaborare possibili combinazioni alimentari innovative che si basano esclusivamente sulle proprietà intrinseche di ingredienti di base. Le combinazioni creative dell’arte culinaria, tuttavia non si esauriscono negli abbinamenti aromatici: molti altri fattori come i colori, la consistenza, la temperatura ed il suono determinano l’appetibilità delle ricette.
La danza virtuosa tra vecchio e nuovo nelle combinazioni di elementi – anche cognitivi – esistenti rappresenta una strategia di introduzione del nuovo: Isaac Newton nei suoi Principia presentò le leggi di gravitazione usando le leggi della geometria convenzionale; Charles Darwin dedicò la prima parte dell’Origine della Specie alla trattazione di temi convenzionali sulla selezione degli animali; la progettazione di prodotti commerciali segue spesso dinamiche al confine tra convenzionalità e novità. Infatti, la combinazione di novità e convenzionalità produce quella cornice che consente una più semplice dinamica di adozione dell’innovazione. Le nuove idee, se incorporate in un quadro di convenzioni accettate, aumentano la capacità del pubblico di valutare ed adottare l’innovazione.
La nozione di combinazione intesa come miscela di più elementi di varia natura ha progressivamente e marcatamente assunto un’accezione positiva. Albert Einstein sosteneva che la combinazione rappresentasse la ‘caratteristica essenziale del pensiero produttivo’. Si noti però che tutti gli esempi di produzione scientifica, industriale o culinaria riportati finora considerano la combinazione con una dimensione intrinsecamente “additiva”. L’equazione “combinazione additiva = combinazione positiva” è radicata nel nostro modo di pensare ed agire. Un recente articolo pubblicato su Nature dimostra che noi essere umani siamo sistematicamente inclini a concepire ed agire trasformazioni additive. La psicologa Gabrielle Adams, con alcuni colleghi dell’Università della Virginia, ha effettuato una serie di esperimenti per spiegare – con alcune interessanti sfumature – la nostra inclinazione a preferire l’addizione. L’attrattività dell’addizione, per esempio, è superiore quando le persone sono sotto ‘carico cognitivo’, cioè quando devono svolgere altri compiti nello stesso tempo, oppure quando il problema da risolvere non segnala immediatamente l’opportunità di utilizzare la ‘sottrazione’ o comunque i limiti e i costi associati all’addizione.
Perché siamo guidati da una logica additiva? Le motivazioni addotte dai ricercatori sono affascinanti: l’inclinazione additiva può essere una prova della presenza di un pregiudizio cognitivo – cultural bias – che informa il modo in cui noi inquadriamo e risolviamo problemi. Come hanno spiegato economisti del comportamento e psicologi cognitivi, i cultural bias si traducono in scorciatoie cognitive che automaticamente ispirano determinate azioni.
L’inclinazione a concepire positivamente combinazione additive – a scapito di quelle sottrattive – apre una interessante discussione. Se questo pregiudizio cognitivo fosse ulteriormente suffragato empiricamente, potremmo spiegare perché noi essere umani abbiamo difficoltà ad affrontare le sfide che naturalmente richiedono trasformazioni sottrattive, per esempio il cambiamento climatico. Posto che esistono altre concause – anche di natura socioeconomica – che frenano l’implementazione pratica di approcci che possono generare effetti positivi nella risoluzione di sfide epocali, la nostra attitudine additiva rappresenta un freno naturale. Si pensi all’economia circolare ed in particolare ai distretti circolari, soluzioni virtuose per l’abbattimento dell’impatto ambientale di produzioni tradizionali e soprattutto del recupero di materiali da risulta delle stesse. Tali soluzioni richiederebbero un frame sottrattivo per essere attuate, e che invece sono apprezzate sulla carta, ma ricevono reazioni tiepide in termini di realizzazione di politica industriale.
A ben guardare, l’attitudine additiva può aver generato una dinamica nella semantica attuale che assegna ‘automaticamente’ all’idea di combinazione una dimensione additiva. Quindi diversità e inclusività – termini entrati preponetemene e giustamente nel nostro vocabolario – sono considerati positivi in un’accezione additiva. Nonostante sembriamo siamo tutti convinti che less is more, la path dependency semantica, – generata dalla nostra inclinazione additiva – potrebbe essere l’ostacolo sulla strada che porta alla creazione di soluzioni semplici per sfide complesse.
Questo articolo in forma ridotta è precedentemente apparso su Corriere Innovazione.
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