7 maggio 2021
Stakeholder, shareholder e contratti connessi. Una risposta a Marcello Messori
“Messori ritiene che il mio volume finisca per essere un manifesto a favore dello stakeholder value. In un certo senso è così.” Ecco la risposta di Debenedetti all’analisi condotta dal professor Marcello Messori sul volume “Fare profitti. Etica dell’impresa”.
Franco Debenedetti, Fare profitti. Etica dell’impresa, Marsilio, Venezia, 2021.
“Le clausole contrattuali – scrive Messori – lasciano un reddito residuo e quindi occorre definire una regola per l’attribuzione di tale residuo.”
Ognuno dei contratti di cui consta l’impresa, anche se basato su una norma di legge, lascia un largo margine di interpretazione oltre che di integrazione, e non solo da parte del management. Pensiamo ai contratti nazionali del lavoro dipendente: sono le organizzazioni sindacali dei lavoratori ad opporsi ai contratti aziendali, anche se questi prevedono, oltre al salario fisso, una parte variabile legata alla produttività, che solo a livello aziendale può essere misurato con precisione e attribuito con giustizia. Sostanzialmente, anche se non formalmente, è una partecipazione all’utile aziendale: spetta al management determinarlo in modo che risulti in un accrescimento dei profitti degli shareholder, ad esempio assicurandosi così le fedeltà di personale qualificato. Tutt’altra cosa sarebbe se lo facessero, ad esempio, per guadagnarsi personali dividendi politici. (Il testo di Friedman del New York Times Magazine, in appendice nel libro, è ricco di esempi). Si parla di Mitbestimmung: ma questa in Germania fu voluta per ragioni politiche, come fu pure, a detta dello stesso Gustav Erhard, l’anteporre l’aggettivo “soziale” alla Marktwirtschaft..
Sembra che Messori consideri l’impresa come un insieme più che un nexus of contracts, fascio di contratti. Invece è un “fascio proprio”, tutti i fili passano per un unico punto. I contratti sono a monte e a valle del processo produttivo, ma l’impresa ne è il centro perché ne è sempre controparte (come acquirente o come venditrice). La domanda è: quale criterio ordinatore è bene segua nel negoziarli? Non v’è dubbio che la loro configurazione determini la distribuzione del valore aggiunto; ma la tesi di Friedman, argomentata nel mio libro, è che la ricchezza prodotta è massima se l’impresa configura quei contratti in modo tale da accrescere il proprio profitto. Questo non esclude che l’impresa possa avere interesse a garantire un profitto stabile ai propri fornitori, ad offrire ai propri lavoratori o clienti ancor più sicurezza di quella obbligata dalla legge. E quanto alle esternalità, affidare la tutela dell’ambiente – per considerare quella più eclatante – al buon cuore delle imprese, come in fondo fa la teoria dello stakeholder value, pare una pessima soluzione. Ne esistono altre, più efficaci: in proposito la letteratura è sterminata.
Friedman pone i contratti all’interno di un triangolo formato da: fair competition, legge, sentire etico. I contratti coi dipendenti, coi fornitori, coi clienti, con le banche, le norme di rispetto ambientale, sono tutti pensati in un mercato competitivo. Anche quello con gli shareholder è un contratto: in base a criteri interni a quel triangolo i risparmiatori scelgono sul mercato finanziario l’impresa a cui affidare i loro risparmi, diventandone azionisti.
I contributi dei molteplici stakeholder – dipendenti, finanziatori, fornitori, clienti, comunità – non sono singolarmente valutabili e quindi sarebbe arbitraria una regola per l’attribuzione del “reddito residuo” che hanno prodotto. Misurabile è solo il risultato complessivo del loro interagire, e si chiama shareholder value.
Ridurre il footprint carbonico, avere produzioni sostenibili, ripensare il mercato del lavoro alla luce della rivoluzione digitale (scrivere i nuovi diritti digitali, come scrive Maurizio Molinari), sono tutte scelte strategiche, accrescono il valore reputazionale dell’impresa, ne aumentano il valore a lungo termine. Compito del management adottarle: lo shareholder value sarà la misura del loro successo. E cosa se no?
Anche l’adozione di criteri gestionali ESG accresce il valore reputazionale presso alcuni investitori, ma incide sul rendimento: in media, su un arco di 5 anni, è inferiore di oltre il 20% a quello di portafogli composti da aziende con alto potenziale di ritorni nel lungo termine: se va bene a chi le sceglie, nessun problema. Anche chi sceglie il modello di società benefit persegue la strategia di accrescere il proprio capitale reputazionale, tant’è che la legge assegna all’Autorità Antitrust il compito di verificare se la funzione pubblicitaria non prevalga al punto da risultare in una violazione delle norme per la pubblicità ingannevole.
Messori, e molti altri con lui, impiega il verbo “massimizzare”: non così Friedman, che parla di “accrescere”. In effetti quel verbo, come rileva Armen Alchian in un noto paper, non descrive quello che fa e quello che deve fare l’operatore economico: questo ha piuttosto un comportamento adattativo, imitativo, che procede per tentativi alla ricerca di profitti positivi. E ciò per l’incertezza del futuro e per l’impossibilità umana di risolvere problemi che contengono un gran numero di variabili, anche nel caso in cui fosse definibile un ottimo. Se i profitti sono positivi l’azienda sopravvive, altrimenti muore.
I fautori dello stakeholder capitalism, preoccupati del modo di tagliare la torta del profitto, tendono a dimenticare ciò che grandemente influisce sulla sua dimensione, in particolare le azioni del decisore pubblico: interventi diretti dello Stato in attività economiche, politica fiscale che incide sugli incentivi di stake- e shareholder, politiche macro che, quando le conseguenze sono negative, vengono poi chiamate fallimenti di mercato. La grande depressione del ’29 fu esasperata, secondo molti, dalle politiche protezioniste; la grande recessione del 2007 fu innescata dalla volontà politica di rendere possibile a ogni cittadino americano, compresi i Ninja (no income, no job or asset), di possedere una casa. Nella crisi del COVID. governi e banche centrali, Fed e BCE in testa, hanno inondato le economie con danaro, in quantità dove l’unità di misura è il trillion. Come conseguenza il mercato perde la sua funzione di assegnare prezzi al beni, quindi anche di valutare la convenienza relativa degli investimenti, sia pubblici sia privati, sia per stake- sia per shareholder. Lo sharehoder value rimane “l’indicatore di ultima istanza[FD1] “.
Messori cita l’apologo di Hart and Moore, della barca a vela con a bordo “un ricco uomo d’affari”, un abile marinaio e un cuoco. Ma i due illustri economisti soprattutto sembrano confondere diritto di proprietà con poteri di comando. I diritti di proprietà vanno attribuiti al “ricco uomo d’affari” non perchè può meglio sostenere i costi della crociera (modesti, stante l’equipaggio, nautica popolare) ma perchè ha deciso di fare quell’impresa per il proprio divertimento, l’ha finanziata e ha assunto un marinaio e un cuoco.
In condizioni di mare calmo decide di fare lo skipper, se sopraggiunge una tempesta, chiede al marinaio di pilotare la barca, e al cuoco di gestire la cambusa. Non c’è nessun passaggio di proprietà.
“In un mondo dinamico e complesso quale quello attuale, l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà e la conseguente attribuzione del reddito residuo” non solo non sono “così instabili da risultare incompatibili con la continuità di istituzioni e di apparati molto difficili da ‘smontare’ e ‘rimontare’ senza soluzione di continuità”. Al contrario il mercato finanziario funziona in modo straordinario: adatta il proprio modo di agire alle tecnologie disponibili (dal big bang, all’high frequency trading, alle cryptocurrency); finanzia società che consegnano pizze con biciclette e quelle che fabbricano razzi per andare su Marte, su qualsiasi orizzonte temporale, per qualsiasi tipo di rischio, secondo qualsiasi preferenza personale (di cattolici che non vogliono affidare i loro risparmi a chi distribuisce profilattici in Africa, o di islamici che non vogliono dare i loro a chi tratta carne di maiale). Solo quando è lo Stato ad essere proprietario “l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà diventa incompatibile con la continuità di istituzioni”: Alitalia docet.
Messori ritiene che il mio volume finisca “per essere un manifesto a favore dello stakeholder value”. In un certo senso è così: stakeholder sono pure, in proprio o per delega, gli shareholder di minoranza. l contratti che ne proteggono gli interessi sono le norme di corporate governance, i regolamenti di Borsa, la concorrenza tre le società, dai quattro giganteschi fondi passivi ai tanti fondi di private equity che scovano margini anche minimi di efficienza da offrire al risparmio.
Leggi qui l’articolo di Marcello Messori
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